“OLTRE LA VALLE” DI VIRGINIA BELLIZZI

Quando, fin da piccoli, ci viene mostrata per la prima volta una mappa geografica, i confini politici ci appaiono scontati e naturali, pronti per essere memorizzati in vista dell’interrogazione. Sono sì cambiati nel corso del tempo, ma restano precisi e definibili in ogni epoca. Paradossalmente, è proprio nei luoghi di confine che ci si rende conto di quanto quelle linee che vediamo riprodotte sulle cartine geografiche siano in realtà trasparenti e quanto il concetto stesso di confine sia artificiale, finalizzato a incasellare in modo rassicurante ogni aspetto della nostra esistenza. È in uno di questi luoghi, nel comune di Oulx, al confine tra Italia e Francia, che Virginia Bellizzi osserva i numerosi e fugaci passaggi di migranti in cerca di un futuro migliore.

La particolarità e l’assurdità dei confini politici è esemplificata da una sequenza in cui la regista ci mostra un campo da golf: la pallina può essere colpita dalla mazza in Italia e atterrare senza ostacoli in terra francese. Non così semplici sono gli spostamenti dei migranti, che vengono spesso respinti o rallentati dalla burocrazia e dalle politiche dei governi coinvolti. L’intento di mettere costantemente in discussione il concetto di confine lega ogni aspetto, formale e contenutistico, del film di Virginia Bellizzi. Da un lato, infatti, Oltre la valle si presenta come un documentario osservativo in cui i racconti dei migranti e dei volontari del centro di accoglienza, anche loro di passaggio, si mescolano senza soluzione di continuità. Dall’altro lato, il film ricorre a materiali di archivio, che testimoniano il massiccio fenomeno migratorio interno nell’Italia degli anni Cinquanta, in cui dal sud si andava verso il nord. Bellizzi si sofferma anche sui paesaggi naturali della frontiera, esplorati dalla macchina da presa che si muove liberamente in lunghe panoramiche aeree, all’interno delle quali il concetto di confine perde completamente di significato.

È la struttura stessa del film quindi, basata su tre livelli visivi molto diversi tra loro, a portare avanti efficacemente il discorso della regista, mettendo in discussione confini spazio-temporali e culturali.  Emblematico in tal senso è il momento in cui i due ragazzini migranti, su cui il documentario si è concentrato a lungo, vengono mostrati in 4:3 e in bianco e nero. Due formati e due epoche diverse che si sovrappongono, a mostrare l’universalità spaziale e temporale dell’immigrazione.

Marco Di Pasquale

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