«Per un momento, immaginiamo insieme un sogno», ci viene detto all’inizio di A Machine To Live In, opera prima diretta da Yoni Goldstein e Meredith Zielke e presentata al Torino Film Festival nella sezione TFFDOC/Paesaggio. Il sogno di cui il film vuole farci partecipi è quello di Brasilia, capitale del Brasile costruita in mille giorni dove prima c’era solo una nuda pianura: voluta dal presidente Kubitschek, pianificata e progettata dagli architetti Lúcio Costa e Oscar Niemeyer, fu presentata alla sua inaugurazione nel 1960 come un’utopia divenuta realtà. Scintillante esempio di architettura modernista, Brasilia è una città con molte curve, molti triangoli, molto bianco, molti specchi e «completamente senza ombre». Per questo sembra che la sua configurazione aumenti l’incidenza dei raggi ultravioletti causando molti casi di disabilità visive. Bisogna accettare di vedere meno se si vuole vivere in un sogno.
A Machine To Live In è un film sulle utopie che parte dal presupposto che ognuno ne abbia una. Goldstein e Zielke sembrano non stancarsi mai di fornirci nuove immagini in grado di visualizzare le tante possibili forme di un’utopia, ognuna presentata come se fosse il tassello principale per risolvere quel puzzle che è il film: un cavallo bianco che galoppa per la città, una scrittrice in una stanza d’albergo che non riesce a prendere sonno, un carillon a forma di Sputnik che ripete «Dell’idea la fiamma già si consuma» (e si potrebbe ancora continuare). Come districarsi dunque in questa enorme e disordinata babele che è la psiche collettiva? In questo consiste appunto l’utopia del film: cercare di connettere le tante esperienze che mette in campo, trovare un ordine tra tutte le sue storie e i sogni che queste portano con sé. Certo, non tutti i collegamenti riescono, e anzi alcuni risultano particolarmente oscuri. Ma d’altronde le utopie non sono fatte per riuscire. Ne è un esempio Brasilia, «il fallimento del più spettacolare successo del mondo».
Il film però ci dice anche altro, e cioè che c’è qualcosa di terrificante nelle utopie, in tutte le utopie. Verso la fine del film, mentre un attore che interpreta Niemeyer parla della nostalgia di un tempo ormai perduto ma che sogna di far ridiventare realtà, il suo volto viene sostituito per pochi secondi da quello di Bolsonaro. Si tratta di un breve passaggio, ma particolarmente straniante. In un’altra scena la voce narrante ci chiede: “Che cos’è l’architettura se non confini? Tiene il mondo fuori”. Ogni utopia sarebbe dunque essenzialmente identica all’utopia contraria, l’utopia socialista di Niemeyer non è poi diversa da quella fascista di Bolsonaro: entrambi desiderano tenere il mondo fuori, credendo di potersene costruire un altro. C’è davvero qualcosa di terrificante in tutti i nostri sogni; c’è una cecità spaventosa nel voler imporre al mondo la propria regola, ma senza il beneficio di un’eccezione che la confermi. Quel che si ottiene è appunto un mondo senza eccezioni, dunque senza individualità.
Angelo Elia
Lucio Costa, non Corso 😉