“LA MISTERIOSA MIRADA DEL FLAMENCO” DI DIEGO CÉSPEDES

Nel 1982, un contagio colpisce gli abitanti di uno sperduto villaggio cileno. La “peste”, così la chiamano tutti, pare sia causata da una delle pulsioni primarie dell’essere umano: la spinta al guardare. Lo sguardo che uccide però non appartiene a una Gorgone pietrificante, né a un cineoperatore il cui occhio meccanico cattura la morte sulla pellicola. La mirada (“sguardo” in spagnolo) mortale è di una Medusa che non ha serpenti ma gioielli camp e lustrini colorati.

L’epicentro dell’epidemia è la casetta di Mamá Boa e la sua family, non-luogo ai confini del mondo e della realtà dove un gruppo di donne trans vive e realizza spettacoli di varietà, un po’ come in una house newyorkese ma con la verve di una comunità almodovariana. La leggenda della peste è il velo magico e simbolico in grado di addolcire l’orrore del reale – l’AIDS – per cercare di dare un senso alla morte. Ma uccidere e cavare gli occhi all’altro non basta, né tantomeno bendare le “travestite” (così si definiscono loro) sopravvissute, perché il corpo trans è ontologicamente un corpo politico, così come lo sguardo.

È proprio in questa esigenza di rimettere al centro un modo di guardare queer il punto focale del film, premiato a Cannes nella sezione Un Certain Regard (e dove sennò?). Gli uomini del paese si coprono gli occhi quando passano i “maricones”, cercando di proteggersi la vista: spettatori-Edipi che odiano, accecati dalla paura. Ma presto la malattia si diffonde dentro di loro e, proprio in quel momento, diventa possibile un cinema trans, che alla polarizzazione binaria oppone l’ibrido come necessità estetica.

In quest’ottica sono riconfigurati anche i canoni di un genere storicamente machista come il western: il conflitto non si risolve in un duello (solo immaginato), ma si dissolve nella conciliazione positiva degli oppressi. La rabbia trans non sfocia nella violenza sanguinaria dell’odio, ma porta i minatori alla presa di coscienza di essere entrambi corpi oppressi, per contagiare anche gli altri sguardi del mondo.

Ludovico Franco

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