“MAGELLAN” DI LAV DIAZ

Come Magellano (Gael García Bernal) che devia continuamente la sua rotta attraverso gli oceani, Lav Diaz sonda nuove prospettive stilistiche per il suo cinema: con la produzione di Albert Serra, per la prima volta non gira in lingua tagalog e adotta il colore. Diaz riporta la violenza del colonialismo alle sue radici arcaiche, rilegge la figura dell’esploratore e il mito dell’Età delle “scoperte”.

Per comprendere la situazione attuale del suo Paese – le Filippine – sposta il baricentro cronologico al momento dell’insinuarsi virulento degli europei nell’arcipelago tra il 1511 e il 1521, anno della morte di Magellano. Se l’avventuriero vaga per gli oceani nel tentativo di circumnavigare il globo, nel panorama contemporaneo le immagini-tempo di Diaz premono come risacche che insistono sulla durata, dilatandola oltremisura. Il piano sequenza è così l’unica configurazione di linguaggio possibile: le immagini non sono investite da una condanna aprioristica, ma finiscono per rivelare da sé la realtà crudele che contengono, come a esaudire il sogno di Bazin.

Posti a una distanza quasi pre-cinematografica da persone e cose, i campi totali dimostrano come il post tenda a risemantizzare le forme antecedenti. Qui e ora non c’è spazio per i tormentati antieroi di Herzog, anche se Magellano invoca il furore di (un) Dio e distrugge gli idoli nativi, temendo il potere dell’imago. Non resta neppure lo “splendore del vero” con cui Godard interpreta il Rossellini televisivo. L’unico senso plausibile della “missione” colonialista resta quello di infrangersi nell’impatto con la violenza. Il veliero spagnolo è così un dispositivo di morte – irrompe nel campo visivo da destra, come la nave di Nosferatu -, ma anche di uno sguardo ben delimitato.

L’uomo e il suo equipaggio sono sineddoche dell’Occidente, il suo presunto umanesimo, le sue contraddizioni, la sua brama di sangue e potere. La pestilenza dell’oppressore infetta anzitutto fede e linguaggio (è il caso del personaggio di Enrique, schiavo-interprete), ma il cinema di Diaz non si piega ai suoi codici. Le immagini dell’autore sono dense increspature nel racconto estetico e politico della Storia, estratti di un’immensità (il film è il frammento di un montato di circa nove ore) a cui soggiace sempre l’invisibile fantasma della violenza coloniale.

Prima di chiudersi, il film fissa la lenta morte al lavoro su Magellano, immerso tra i resti del massacro – anzi, della sua genesi. Non resta che tornare a inquadrare Enrique il quale, consapevole della propria complicità nella zona grigia tra vittima e carnefice, spoglia il suo corpo degli abiti e della cultura del padrone. E guarda in avanti, vicario della colpevolezza silenziosa di tutti noi spettatori.

Ludovico Franco

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