Nel novembre 1945, un ambizioso psichiatra (Rami Malek) è incaricato di stilare il profilo psicologico dei leader nazisti detenuti dagli Alleati, tra cui c’è anche l’inquietante Hermann Göring (Russell Crowe). Mentre cerca di comprendere motivazioni e strategie difensive dei prigionieri, il giudice Robert Jackson (Michael Shannon) si batte per istituire un tribunale internazionale che garantisca una giustizia imparziale anche per i carnefici del secondo conflitto mondiale.
James Vanderbilt porta sullo schermo una Norimberga “hollywoodiana”, con scenografie grandiose e una color correction che desatura i toni. La trama elude la ricostruzione fedele, preferendo raccontare l’incalzante duello fra l’arroganza di un criminale e il giudizio della Storia. Il crepuscolo dei gerarchi è qui incarnato da Russell Crowe che, con la sua imponente fisicità, tratteggia un Göring vanesio e arrogante, incapace di confrontarsi con la sconfitta e con gli orrori del Reich. A sfidarne la boria è Douglas Kelley, interpretato in modo adeguato da Malek in un ritratto che però insiste eccessivamente su toni agiografici. Meno riuscita la gestione del cast di contorno: l’ottima prova di Michael Shannon non trova adeguato spazio, così come il resto dell’alto comando tedesco, relegato sullo sfondo.
Evocando il modello “Davide contro Golia”, Nuremberg non riesce a mantenerne le implicazioni etiche più profonde. I nazisti sono ritratti come uomini vigliacchi e pronti all’autoassoluzione, incarnazioni credibili della “banalità del male”; tuttavia, il film li inserisce in un conflitto fin troppo lineare e schematico, che appiattisce le ambiguità. Rimane l’intenzione lodevole di mantenere viva la memoria di quel processo, anche se la ricerca dell’effetto drammatico prevale sulla profondità della ricostruzione.
Vittorio Barbieri
L’articolo è stato pubblicato su “la Repubblica” il 30 novembre 2025
