In una fattoria nel nord della Germania, quattro generazioni in altrettante epoche (anni ’10, anni ’40, anni ’80 e anni 2000) si alternano in un secolo di storia, apparentemente separate dal tempo, ma intimamente accomunate da pensieri, paure e desideri. Ciò che succede nel passato, dunque, si riverbera sempre nel presente e i traumi irrisolti ritornano pungenti nelle generazioni successive.
Sound of Falling, secondo lungometraggio di Mascha Schilinski, è un ritratto perturbante di quattro donne che, a loro volta spettatrici di altre vite, si muovono fra le mura di questa casa-mondo vivendo le medesime esperienze: donne alla ricerca del vero significato delle cose, che sognano ad occhi aperti la propria morte come qualcosa di rassicurante, consapevoli dello sguardo maschile sessualizzante che penetra fino alle ossa; donne che ridono sempre al momento sbagliato, curiose di sapere come ci si sente a camminare con un solo arto, che scelgono la morte piuttosto che essere vittime di atti ben peggiori.
La macchina da presa le segue lungo i corridoi della casa e nei dintorni, assumendo talvolta il punto di vista interno di un personaggio che spia attraverso un buco della serratura (i personaggi diventano così loro stessi dei cineoperatori, in grado di osservare le vite altrui più che testimoniare della propria), talvolta prendendo le sembianze di una presenza misteriosa, quasi un fantasma della casa che tutto osserva e che di tutto si nutre.
Come riflette la piccola Alma – una delle protagoniste del film -, quando si ripete per tante volte una parola, questa perde di significato: allo stesso modo i ripetuti salti temporali causano la perdita di significato della nozione stessa di tempo, creando un continuum spazio-temporale e portando la storia in una dimensione in cui tutto succede contemporaneamente, che tanto richiama il cinema di Tarkovskij.
Il corpo femminile attraverso le varie epoche è sempre soggetto alla violenza – fisica, psicologica, sessuale – che viene come inscritta nel loro codice genetico e la cui unica alternativa è una smaterializzazione del corpo stesso attraverso la morte. Le vite di queste donne rimangono inafferrabili, impossibili da catturare neanche attraverso una macchina fotografica (che più volte compare nel film), che è in grado di restituirci soltanto dei fantasmi, delle figure immateriali pronte a spiccare il volo. Così anche il cinema ci restituisce soltanto delle ombre, dei simulacri della realtà che non potremo mai cogliere pienamente, ma che influenzano inconsciamente la nostra identità.
Francesca Strangis
