«L’Italia è un paese di musichette mentre fuori c’è la morte»: così recita l’intro di Mai dire mai (la locura), brano portato da Willie Peyote al Festival di Sanremo 2021. In piena emergenza pandemica, quella frase, tratta dalla serie Boris, suonava più attuale che mai. L’episodio viene raccontato in Willie Peyote – Elegia sabauda, documentario diretto da Enrico Bisi, che ripercorre in maniera non convenzionale le vicissitudini artistiche e personali del rapper torinese.
Il film si costruisce attraverso un montaggio frammentato, che procede avanti e indietro nel tempo, quasi a seguire il ritmo sincopato della musica del suo protagonista. Bisi delinea così un ritratto scomposto e discontinuo di Willie Peyote, seguendolo nel quotidiano, tra la spesa al mercato, le sessioni in studio, i momenti di scrittura, accompagnando lo spettatore in un arco temporale che va dal momento fragile e difficile del 2023 al Festival di Sanremo del 2025. Guglielmo Bruno, questo il vero nome del musicista, viene osservato nella sua dimensione più ordinaria e disordinata: vengono intervistati i genitori, alcuni amici, i membri della band, lo si vede immerso nell’atto creativo.
La regia rifugge consapevolmente le regole tradizionali del documentario biografico. Bisi entra spesso in campo, dialoga con il protagonista, la sua voce emerge da dietro la macchina da presa; al tempo stesso, i materiali d’archivio mostrano Willie Peyote agli esordi, già attraversato da quelle insicurezze che ancora oggi lo accompagnano. Il racconto non è lineare e non tutto viene esplicitato: chi non conosce a fondo la sua musica e il suo percorso potrebbe non cogliere pienamente alcuni passaggi. Una scelta che sembra coerente con l’idea di un ritratto volutamente incompleto.
Il titolo stesso, Elegia sabauda, richiama l’identità torinese dell’artista e rimanda direttamente all’album Educazione sabauda che lo ha fatto conoscere al grande pubblico. Willie Peyote inizialmente non voleva realizzare il film, convinto che non ci fosse nulla di interessante da mostrare. E, infatti, non siamo di fronte a una celebrazione ma a un ritratto intimo e contraddittorio, capace di mettere in luce anche le fragilità, le zone d’ombra, i dubbi dell’artista.
E poi ci sono la passione incrollabile per il Toro, lo stadio, il legame con la città: una fede calcistica vissuta come identità, profondamente radicata nonostante le alterne fortune della squadra. Da questo mosaico emerge la fatica di vivere nella contemporaneità, di essere in costante attrito con un mondo che sembra volerlo normalizzare e sottomettere alle proprie regole. Eppure, sul palco, durante i concerti, Willie Peyote scopre di non essere solo: il pubblico che lo segue da anni diventa la prova concreta di una resistenza condivisa, di un pensiero critico che continua a trovare spazio, voce e ascolto.
Greta Maria Sorani
