Durante le riprese del suo cortometraggio precedente, Belva nera, Zoppis e Rigo di Righi si sono trovati per caso ad assistere al passaparola di un aneddoto che sarebbe poi diventato l’inizio di un percorso di documentazione che si è concluso con la nascita della loro opera prima, Il Solengo.Con un linguaggio da film noir, pian piano il “mito” di Mario “di Marcella” si rivela attraverso i cacciatori del paese i quali raccontano gli incontri diretti che questi hanno avuto con lui e le leggende tramandate da generazioni. Essendo considerato il matto del paese, veniva chiamato “il Solengo”, nome che si dà ai cinghiali maschi che vengono esiliati dal branco. Ed è appunto il suo isolamento insieme al suo carattere irrequieto, scontroso e imprevedibile, che ha creato un alone di mistero sul perché conducesse una vita da eremita.
Inizialmente la volontà di sfatare il mito rappresenta l’unico motore dell’inchiesta, ma durante il loro percorso i due registi scoprono che i loro intervistati, il loro mondo, i loro gesti e le loro abitudini, possono divenire dei personaggi veri e propri . Così il filo conduttore diventa, non la storia di Mario “di Marcella”, ma la natura selvaggia e le tradizioni ancestrali che circondano questa storia. E’ così che l’inchiesta si trasforma nel ritratto di un mondo che incuriosisce e affascina la coppia di registi.
Veniamo immersi in una comunità maschile, dove la la caccia costituisce l’elemento identificativo e portante di questa realtà. Ad un primo sguardo la figura femminile, che riveste un ruolo fondamentale nella vicenda, sembra assente. Si scopre a poco a poco che due donne segnano il destino del “Solengo”. La prima, sua madre Marcella, considerata da tanti una strega per i suoi modi strani e le sue “profezie”, ha cresciuto suo figlio in prigione, dove sembra abbia pagato per una colpa altrui. Si dice che sia stata lei a convincerlo a non parlare con nessuno e a mantenersi distante dalla gente del paese.
Mario svela l’esistenza di una seconda donna raccontando con la sua voce sussurrata che l’ambiente naturale in cui si è rifugiato gli ha portato via l’unica altra donna della sua vita, Eugenia.
La macchina da presa, sia nelle inquadrature fisse dei cacciatori intervistati, sia nella perlustrazione incessante del territorio, sottolinea l’assenza fisica di Mario attraverso le riprese dei boschi, del fiume, della rocca di tufo. Ques’assenza viene smentita solo alla fine dalla sua flebile voce.
Indubbiamente è un documentario pieno di temi che ci toccano come qualcosa di remoto e arcaico. Si tratta di un doppio viaggio: nella campagna romana e nella memoria del passato che sembra scomparire insieme ai suoi personaggi. Lo spettatore si crea la propria strada accompagnato da un commento musicale frammentato, ambiguo e misterioso. Un film da guardare, un viaggio da fare e una storia da trattenere.