Una serie di giovani, belle donne riprese – spiate – nel loro viavai quotidiano per le strade affollate di New York. In questa sequenza d’apertura, lo sguardo della macchina da presa, il nostro sguardo, suggerisce che una qualsiasi di loro potrebbe essere protagonista della storia. Ad una qualsiasi di loro il futuro potrebbe riservare ciò che, invece, ha in serbo per Luciana, immigrata spagnola nella città dove i sogni si realizzano, o almeno dovrebbero, secondo l’”American Dream”.
Sceglie di sopravvivere, infatti, accettando lavori precari e saltuari, a tratti degradanti, sfruttando una serie di escamotage al limite della legalità e la propria stessa bellezza per non dover fare ritorno in patria: in Spagna sono rimasti solo i ricordi dolorosi del suo passato. Uno di questi impieghi la porterà, dunque, a ritrovarsi al centro di un pericoloso gioco per il piacere di pochi privilegiati.
Most Beautiful Island è l’opera prima di Ana Asensio che oltre ad aver scritto e diretto questo lungometraggio, presentato all’interno della sezione “After Hours” del Festival, ne è anche l’attrice protagonista. Il film è diviso in due sezioni narrative distinte: la prima ci trascina letteralmente all’interno di una giornata tipica nella vita di Luciana: la seguiamo per le strade e i parchi della ”Grande Mela”, nei bar e nei piccoli negozi di alimentari; la spiamo riflessa in uno specchio sulla parete della camera da letto, sul ciglio della porta in bagno mentre si spoglia. Lo sguardo occupa un ruolo privilegiato all’interno delle scelte di regia: il voyeurismo tipico dell’esperienza cinematografica anticipa quei meccanismi di “visione perversa” che si svilupperanno nella seconda parte del film, girato in Super 16. In tutta la prima parte è evidente un intento documentaristico: l’immagine sgranata, le oscillazioni delle inquadrature, la loro durata e la quasi totale mancanza di colonna sonora sono espressione di una volontà di verosimiglianza da cui la materia narrativa stessa trae a piene mani. Così come Luciana, molte altre ragazze, nell’universo di finzione del film e nella realtà quotidiana, ricorrono al proprio aspetto fisico come ad una risorsa di guadagno, in mancanza di prospettive lavorative migliori.
Tuttavia, nonostante queste premesse a giustificarne l’andamento flemmatico, il finale della prima parte fatica a creare la suspense necessaria ad introdurre la seconda, dove invece la pellicola ingrana finalmente la strada del genere thriller, in particolare quello psicologico: non appena il giorno si tramuta in notte, Ana Asensio -regista e personaggio – varca una porta, rischiando di non trovare più un punto di comunicazione con ciò a cui abbiamo assistito in precedenza. Ci conduce all’interno di un unico spazio claustrofobico e glaciale, abitato da individui che non possiamo chiamare tali poiché privati della loro parte più umana, naturale. Giocando con il cliché della ricerca a tutti costi di emozioni forti da parte di un pubblico ricco ed imbolsito, sarà proprio una controparte animale a servire a questo scopo, in un montaggio ansiogeno che regge la suspense sino alla fine.
L’”isola più bella”, quella del titolo, tanto agognata da Luciana per poter ricominciare una nuova vita, non sembra dunque trovare una giusta ubicazione lasciandoci a riflettere sull’autenticità del “Sogno americano”.