Dulcinea nasce dall’ideale fusione nella mente di Luca Ferri di Don Chisciotte e il romanzo Un amore di Buzzati.
Dulcinea racconta di una giovane donna che attende un cliente nel suo appartamento, in una Milano degli anni ’90 che resta sempre fuori dalle finestre e affiora soltanto dai rumori di fondo. Quanto al cliente, il moderno Don Chisciotte, non fa altro che pulire ossessivamente la sua casa, mentre la giovane si mette lo smalto, si trucca, si prova numerosi vestiti, fuma una sigaretta. La perversione di lui traspare solo due volte: una prima, in cui lo vediamo raccogliere una sottoveste in pizzo e riporla con cura in una valigetta all’interno dell’armadio, e tocca l’apice nella seconda, quando a mani nude ripesca un pezzo di carta igienica dal water, dal quale la ragazza si è appena alzata.
Nel corso di tutto il film Dulcinea agisce come se l’uomo non fosse in casa, nella più totale indifferenza e freddezza: come un’attrice di teatro che si rivolge alla platea ignorando il pubblico davanti a sé. I due non parlano mai, non c’è traccia di interazione fisica, neppure quando lui la scavalca per accendere il registratore sul comodino. Da quest’ultimo, da una radio e da un carillon, provengono i soli suoni che accompagnano il film, oltre ovviamente ai rumori d’ambiente.
La luce, così come l’appartamento e tutta l’architettura sonora, è protagonista del film al pari dei due personaggi umani.
In un film che conta quindi quattro personaggi, di cui due inanimati, manca però una storia. Di Don Chisciotte manca la passione, l’irrazionalità, il sogno di una lotta contro i mulini a vento; non resta che un misero uomo, schiavo di un feticismo. Non c’è traccia di evoluzione dei personaggi, così come il tempo sembra non scorrere mai. I dettagli, studiati alla perfezione in modo ossessivo, non fanno che dare un senso di finzione assoluta. Luca Ferri si concentra su gesti ripetuti e routine all’infinito, amplificando solo il nulla; come se la realtà di oggi non lasciasse neppure spazio al sogno d’amore di un folle.