“LES GRANDS SQUELETTES” DI PHILIPPE RAMOS

Le domande universali che l’individuo si pone quotidianamente prendono vita in Les grands squelettes, un fotoromanzo eterodosso del regista transalpino Philippe Ramos. Già associato a punte di diamante della scena autoriale francese come Leos Carax e Yves Caumon, Ramos presenta la sua ultima creatura nella sezione Onde, la più sperimentale del festival.

Les grands squelettes è un film senza trama e senza protagonisti. A dire il vero, non è nemmeno un film. L’opera di Ramos si snoda su delle serie fotografiche narrate dai personaggi rappresentati, che espongono gli spettatori alle loro meditazioni. È un soliloquio colmo di domande retoriche a cui nessuno dà una risposta, ma trascina inesorabilmente verso una deriva esistenziale. Timore, delusione, apatia, ossessione e sensibilità sono tra le commozioni che gravitano attorno a una forza centripeta sessuale. Raramente viene squadernata così direttamente l’angoscia interna, quando nel linguaggio cinematografico comune è preferito comunicare attraverso le azioni e le emozioni.

Fin dalle prime immagini del film, è possibile comprendere la rilevanza che Philippe Ramos dona alla parola spontanea, alla fabula interiore, è un Ulisse palpabilmente joyciano che vaga nei meandri dell’inconscio. Les grands squelettes, infatti, può essere visto come lo scheletro di un film che parla di scheletri, come le ossa che compongono il nucleo fragile della nostra esistenza, ma anche il tipico segreto: lo scheletro nell’armadio che assilla le nostre vite.

Il regista francese distrugge la metafisica del monologo interiore, rendendolo l’unico elemento caratterizzante dei protagonisti, trascendendo la linearità espressiva e il dialogo. Quest’ultimo non è contemplato dal regista, il quale preferisce seguire una continuità di immagine astrusa, che avvicina Les grands squelettes a un’opera di performance costantemente frammentata dalle considerazioni insicure e traballanti dei personaggi. La perversione è l’oggetto anomalo attorno al quale orbita la precarietà psicologica dei monologhi. La nudità, sia metaforica che reale, e l’innocenza che caratterizza le fotografie, costringono lo spettatore ad empatizzare con i pensieri di Denis Lavant e Jacques Bonnaffé.

Philippe Ramos, dunque, presenta una serie fotografica dinamica, un prodotto visionario di ottima fattura che gioca con il cinema e la narrazione. L’unica menda da sottolineare è la monotonia del racconto che, forse volutamente, appiattisce la voce della coscienza all’interno dei personaggi, ma impegna lo spettatore a soffrire la ridondanza dell’opera, soprattutto nel finale.

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