Presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival, già vincitore della Camera d’Or a Cannes, dove concorreva nella sezione Un Certain Regard, War Pony segna l’esordio alla regia dell’attrice Riley Keough e della produttrice Gina Gammell, con un appassionante ritratto della comunità di nativi americani coinvolta direttamente nella realizzazione del film.
La trama intreccia le storie di due giovani indigeni Oglala Lakota, nati nella riserva naturale di Pine Ridge nel Dakota del Sud. Il dodicenne Matho (Ladainian Crazy Thunder) vuole diventare presto adulto e quando scopre che può vendere la droga del padre tossicodipendente comincia a spacciare. Bill (Jojo Bapteise Whiting), invece, ha ventitré anni e cerca un modo di guadagnare dei soldi per sostenere i due figli avuti da ragazze diverse. Le vicende dei protagonisti si dispiegano in una narrazione lineare, dagli esiti prevedibili quanto inevitabili, creando un duplice ritratto privo di speranze della gioventù indigena, costretta a confrontarsi con le contraddizioni del contesto sociale in cui nasce.
L’idea del film nasce dall’incontro di Keough con due nativi americani che lavoravano come comparse sul set di American Honey (Andrea Arnold, 2016). La regista è rimasta talmente affascinata dai due da stringere un legame affettuoso con la comunità di indigeni che ha poi coinvolto direttamente nella realizzazione del film. Ma War Pony deve molto di più all’opera di Arnold: non solo perché quest’ultima ha permesso quell’incontro fortuito, ma anche perché si è dimostrata influente nella freschezza e nell’onestà con cui ha ritratto la nuova gioventù della provincia americana, composta da ragazzi in difficoltà e senza genitori alla ricerca del sogno americano, in conflitto con una realtà che li spinge alla deriva. In War Pony si aggiunge il discorso etnico, dando voce a una minoranza di giovani ormai lontana dalle tradizioni della propria cultura di origine, eppure emarginata per la sua diversità.
Lo sguardo delle due registe sui giovani protagonisti e la loro comunità è sincero e affettuoso, non evita di mostrare gli aspetti problematici delle loro vite, insistendo sul dramma esistenziale senza mai risultare disonesto o indiscreto. La macchina da presa li segue nella loro quotidianità senza esprimere alcun giudizio, ma denunciando le condizioni di vita a cui sono costretti, l’assenza di maturità delle figure adulte e la mancanza di prospettive per un futuro migliore. Una denuncia che rientra appieno nell’ideale di un cinema americano indipendente attento a rappresentare realtà sociali emarginate.
Fabio Bertolotto