Celata nell’ombra del pessimismo sociale, la ricerca della razionalità, spesso incarnata dai valori umani della scienza e della giustizia, prende le forme spietate e drammatiche di un male superiore, un demone che si alimenta della discriminazione collettiva e dell’odio reciproco. È in questo modo che il secondo lungometraggio di Han Dong-seok, The Sin, presentato nella sezione Crazies del 41^ Torino Film Festival, propone una folle visione del peccato originale, in cui il sentimento di paura e l’ossessivo desiderio di vendetta si insinuano nella fisicità meccanica di molteplici corpi in movimento.
Scelta come attrice principale per interpretare la protagonista di un film sperimentale sulla danza, la giovane Si-young (Kim Yoon-hye), sotto la guida di un inquietante regista visionario, esegue inconsapevolmente un rituale sciamanico volto a riportare in vita i defunti. Attraverso i passi di danza, un contagio ineluttabile e letale si diffonde indiscriminatamente nell’animo umano che improvvisamente viene posseduto da una follia terrificante in cui si nasconde un’immagine tetra e nichilista della società. Tutto è costruito sulla forma puramente estetica delle fluide e vitali geometrie del ballo cui si contrappongono le rigide movenze convulsive dei morti viventi che rivelano i timori e le preoccupazioni di una comunità nella quale emergono contrasti e divergenze.
Nonostante i chiari e reiterati tentativi di riprendere gli archetipi dello zombie movie sudcoreano – che da Train to Busan (2016) in poi ha predisposto i canoni di un sottogenere autonomo dotato di specifiche caratteristiche – il film riesce a reinventarsi senza risultare inconcludente o ripetitivo. Ma nel momento stesso in cui sembra assestarsi su una specifica linea narrativa, l’enigmatica e camaleontica opera di Dong-seok cambia volto, rimescolando le carte in tavola e assumendo i lineamenti di un mostro prismatico e poliedrico. Il film diventa allora un incrocio infinito di espressioni, un caotico susseguirsi di eventi apparentemente privi di senso, una matassa intricata che prova a dipanarsi nel misterioso fascino dell’ignoto e che porta a una violenza collettiva in cui non trova spazio alcuna individualità.
La metamorfosi dei corpi si traduce in un equidistante bipolarismo, i cui confini sono tuttavia nebulosi come i personaggi che lo subiscono: bene e male, vita e morte, presente e passato; ogni elemento appare terribilmente vago e indecifrabile, ed è proprio questa mancanza di certezze che suscita un febbricitante brivido di terrore.
Emidio Sciamanna