Dopo essersi recentemente calato nei panni di Albert Einstein per la serie antologica Genius, Geoffrey Rush veste ora quelli dello scultore e pittore svizzero Alberto Giacometti in Final Portrait di Stanley Tucci. Il film racconta dei lunghi diciotto giorni di realizzazione di un ritratto di James Lord che seguirono l’iniziale promessa di un lavoro veloce, di qualche ora o al massimo di un pomeriggio. Ad interpretare lo scrittore americano troviamo Armie Hammer, mentre le francesi Sylvie Testud e Clémence Poésy danno vita rispettivamente alla moglie dell’artista, Annette, e alla prostituta Caroline che per quattro anni fu sua musa e amante.
Il film, ambientato a Parigi ma girato a Londra, si svolge prevalentemente nello studio di Giacometti: Lord si reca qui ogni giorno per posare, ma l’entusiasmo iniziale diminuisce progressivamente a causa della perenne insoddisfazione del pittore che dipinge e cancella per giorni i tratti del volto dell’uomo ribadendo che il ritratto non potrà mai essere completato. I colori delle scene richiamano quelli utilizzati da Giacometti nelle sue opere, prevalentemente grigio/bianco/nero/ocra, e la macchina da presa si sofferma in più occasioni su dettagli del viso di Hammer, come per permettere allo spettatore di studiarne le caratteristiche insieme all’artista.
Durante queste settimane si approfondisce il legame di amicizia tra i due – divertenti i dialoghi riguardanti altri pittori, su cui Giacometti si pronuncia senza peli sulla lingua; Lord fa la conoscenza del fratello Diego (interpretato da Tony Shalhoub, con cui Hammer costruisce un rapporto di intesa basato principalmente sugli sguardi) e di Annette e Caroline, osservando curiosamente le dinamiche che li muovono.
La ripetitività delle giornate pesa però sullo spettatore come su James Lord, sfiancato fisicamente dalle ore in posa e mentalmente dal malcontento del pittore: nello studio il tempo sembra non passare mai, le dinamiche tra personaggi intrappolati in sé stessi si ripetono, e neppure le scene ambientate in esterni spezzano la monotonia; l’unica boccata di aria fresca arriva con Caroline, caratterizzata visivamente da colori brillanti e da una personalità vivace ed esuberante ma, come nel caso degli altri personaggi, non approfondita a sufficienza.
Al suo ritorno dietro la macchina da presa Tucci realizza un biopic costruito con cura e una grande attenzione ai dettagli (una nota di merito va allo scenografo James Merifield) ma che non va oltre la superficie limitandosi a mostrarci delle buone prove attoriali senza troppa inventiva nella costruzione della sceneggiatura.