Zefrey Throwell e Josephine Decker sono due artisti newyorkesi che hanno deciso di mettersi a nudo davanti all’obiettivo della telecamera. Così è nato Flames, il documentario che racconta cinque anni della loro storia d’amore partendo dalle prime affiatate uscite e oltre la fine della loro relazione, mostrandoci anche la decisione di continuare a vedersi nonostante la rottura, per portare a termine il progetto che li ha tenuti impegnati così a lungo. Un’esperienza così profonda da continuare ancora adesso a film terminato, come ci conferma lo stesso Throwell che, in conferenza stampa, confessa di parlare ancora del film con la Decker perché “Quando si condivide un’esperienza così profonda ed intensa con un’altra persona, un po’ di quella persona resta dentro di te, e un po’ di te resta in quella persona”.
Un nodo fondamentale di questo film riguarda la sua natura e quella dei suoi interpreti: è un documentario o un’opera di fiction? I protagonisti sono genuinamente innamorati o sono degli abili performers consapevoli di essere in un’opera di finzione? Il film riconosce questa ambiguità e non la nasconde, anzi la sua forza sta proprio nel giocare con essa, spingendo il pubblico a domandarsi quanto sia necessario conoscere la verità.
La prima parte del film (e della storia d’amore) ha tutto il sapore del cinema di fiction. Zefrey e Josephine fanno sesso, si punzecchiano e scherzano come farebbe qualsiasi coppia di fidanzati, ma non abbiamo mai l’impressione di vedere una relazione autentica. Noi più di loro ci rendiamo conto della presenza della videocamera, il montaggio e le immagini sono così ben pensate e costruite da farci domandare quanto siano casuali le scelte dei protagonisti e quanto tutto ciò che provano sia reale e non amplificato dalla situazione.
Soltanto quando la storia d’amore finisce, nella seconda parte del documentario (o del film?) tutto inizia ad apparirci più sincero ed originale. Gli attori smettono di agire davanti alla macchina da presa e iniziano ad interagire con essa, sono loro per primi a porre la provocatoria domanda se la loro storia d’amore fosse verità o finzione. I due, sfruttando l’espediente diegetico di dover montare quanto girato, ripercorrono la loro avventura, interrogandosi sulle cause della separazione e su ciò che provano e provavano l’uno per l’altra; invece noi, voyeur davanti allo schermo, iniziamo a capire che i dubbi sorti mentre li osservavamo sono gli stessi avuti da loro durante la separazione, permettendo un’immedesimazione là dove fino a quel momento avevamo provato distacco.
Alla fine non è necessario conoscere se quanto visto sia frutto di veri sentimenti o una performance artistica pensata da Throwell; nel momento in cui entriamo in sala accettiamo di credere alla realtà che ci viene proposta sullo schermo. Il film riesce allora ad esplorare le dinamiche del rapporto, creando una rottura nella percezione che noi abbiamo della coppia, stimolando riflessioni, spingendoci a porci delle domande fondamentali sulla natura delle storie d’amore e su cosa consideriamo vero. Credo che, in linea con le loro altre performances, l’obbiettivo ultimo dei due artisti fosse proprio questo, stimolare una reazione cognitiva nello spettatore, non più semplice voyeur ma coinvolto direttamente nel gioco di coppia.