Ogni rivoluzione apre la strada a infinite possibilità e pone a ognuno l’ardua sfida di immaginare un nuovo futuro, sperando di non venire delusi. Si prenda come esempio la rivoluzione haitiana: quasi contemporanea a quella francese, fu l’unica rivolta di schiavi nella Storia a dare vita a uno stato indipendente, Haiti. Il resto della storia, come si sa, è purtroppo meno glorioso: una triste e lunga sequela di miseria, dittature, disastri economici e infine naturali. A più di duecento anni di distanza, i registi europei Louis Henderson e Olivier Marboeuf si uniscono ad alcuni attori haitiani per cercare di riflettere sull’eredità della rivoluzione haitiana attraverso la storia di uno dei suoi più celebri protagonisti, Toussaint Louverture. E raccontano questa storia partendo dalla fine, cioè dalla Francia.
Il punto di partenza del film è infatti il dramma Monsieur Toussaint (1961) dello scrittore francese Édouard Glissant, in cui il rivoluzionario ripercorre la propria vita durante i suoi ultimi giorni nella prigione francese di Fort de Joux. Il bianco glaciale delle montagne innevate del Giura e l’oscurità della prigione si alternano alle immagini di un ricercatore intento a leggere dei documenti riguardanti il rivoluzionario haitiano. Questo è il primo atto del film, che dura circa mezz’ora. Ce ne sono altri due, ambientati a Port-au-Prince e stilisticamente diversi dal primo, in cui assistiamo al processo di adattamento e traduzione del dramma di Glissant e veniamo resi partecipi delle varie discussioni degli attori a proposito della cultura e identità haitiana. Nel frattempo, il fantasma di Toussaint fa ritorno nelle strade di Port-au-Prince e alcuni attori vengono posseduti da degli spiriti. Questa idea di una vicinanza tra mondo dei morti e mondo dei vivi, presente già nella pièce, fornisce però diversi collegamenti ad altri film che recentemente hanno raccontato i drammi e le contraddizioni della realtà post-coloniale attraverso storie di corpi posseduti e di fantasmi che ritornano – si pensi ad Atlantique (2019) di Mati Diop, ma soprattutto a Zombi child (2019) di Bertrand Bonello-.
Ouvertures si muove quindi intorno alla figura di Toussaint come una spirale, mescolando e accumulando immagini e idee, in un lavoro incessante che rappresenta l’aspetto più affascinante del film. E alla fine poco importa se la struttura a tre atti a volte fatica a tenere insieme in maniera coerente le tante suggestioni che il film ci presenta: ciò che importa è infatti proprio quella dimensione frammentata e caotica in cui il film ci accompagna e che è l’unica, forse, in grado di accogliere la sua abbondanza di idee e codici (dal teatro al rap, passando per il Rara). Ouvertures riconosce che l’arte può dirsi rivoluzionaria solo restando il più possibile aperta alle infinite possibilità che permette.
Angelo Elia