Pieces of a Woman, in concorso alla 77ª Mostra di Venezia e distribuito in Italia da Netflix, è un racconto impregnato di rabbia interiore e coraggio, che tenta di confrontarsi criticamente con un tema dibattuto – la scelta di come partorire – esplorando la rete di relazioni affettive che ruotano intorno alla protagonista.
Martha (Vanessa Kirby) è una giovane donna alle prese con un parto in casa e la successiva perdita di una figlia, morta pochi secondi dopo essere venuta al mondo. Per negligenze altrui o complicazioni imprevedibili poco importa: la protagonista dovrà compiere un doloroso percorso per ricomporre i pezzi della propria vita, mentre chi gravita intorno a lei sembra marciare nella direzione opposta.
Il cuore del film batte all’unisono con quello di Vanessa Kirby, chiamata alla prova di maturità della sua carriera. Esame superato a pieni voti, perché la sua recitazione è impregnata della dedizione viscerale con cui riesce a restituire l’esperienza del parto e della perdita. Ad aiutarla una regia che dà ampio spazio a ogni suo turbamento, silenzio o interazione. La direzione dell’ungherese Kornél Mundruczó, al primo lungometraggio in lingua inglese, attinge a piene mani dalla sua precedente esperienza teatrale: inquadrature lunghe ma mobili, in grado di attraversare gli spazi e seguire i movimenti dei suoi attori. Magistrale il piano sequenza di oltre venti minuti del travaglio di Martha, un climax emotivo in grado di creare una forte connessione tra il pubblico e la sofferenza fisica ed emotiva della protagonista.
A questi pregi, fanno da contraltare alcune fragilità. Il lavoro maestoso di Kirby (premiata con la Coppa Volpi) mette a nudo la poca consistenza degli altri personaggi – sagome che si muovono e parlano, ma non vivono. Quasi dei figuranti, privi di un vero sviluppo a dispetto di una corposa presenza in scena. La sceneggiatura è scritta in funzione della protagonista e, di conseguenza, le sottotrame che non la vedono inclusa perdono di efficacia. La rabbia di Sean (Shia LaBeouf) appare meccanica perché non supportata da un arco narrativo omogeneo rispetto a quello della compagna. Ellen Burstyn, a sua volta, seppur carismatica, risulta davvero credibile soltanto quando interagisce con la Martha.
Alla lunga il film perde ritmo, risultando un amalgama di momenti anche azzeccati (come la lunga sequenza in soggiorno) che però non raggiungono pienamente la chiusura lineare cercata e richiamata più volte dalla metafora del ponte in costruzione. Anche in questo caso, come fu per Marriage Story (2019, Noah Baumbach), l’esperienza personale dell’autore contribuisce a rendere autentico il film, mostrando tuttavia qualche lacuna quando giunge il momento di far coesistere organicamente i vari episodi che racconta.
Marco Ghironi