Dal buio della sala, allo sguardo è concesso di contemplare le sponde di un piccolo fiume immerso nel verde, ma quello che sembra un limpido corso d’acqua è in realtà un ammasso di fanghiglia e cadaveri dilaniati, resti di una battaglia appena conclusa. Con Kubi, Kitano Takeshi torna alla regia con un dramma storico ambientato nel Giappone feudale, esattamente vent’anni dopo il grande successo di Zatōichi (2003), dedicato all’epopea del samurai cieco.
Come era già chiaro in altri film del regista, la volontà di non prendersi sul serio domina il dramma storico e politico. Kitano si diverte e scherza con ironia caustica, ripercorrendo uno dei racconti epici più importanti della tradizione giapponese. Adattando un proprio romanzo dedicato al famoso incidente di Honnō-ji, in cui una serie di tradimenti portano all’uccisione del feudatario Oda Nobunaga e al conseguente fallimento dell’unificazione del Paese durante il Periodo degli Stati Belligeranti, Kitano si allontana dall’epopea storica e dalla narrazione eroica per trasformare in parodia una vicenda che nell’immaginario popolare costituisce uno snodo fondamentale per la storia del Giappone.
Se, da un lato, le battaglie in campo aperto omaggiano lo stile e le geometrie dei classici di Kurosawa Akira, dall’altro la violenza efferata domina la scena e diventa il pretesto per scatenare l’assurda comicità di un mondo assai distante dalla cultura tradizionale. In Kubi ogni epicità è volutamente estromessa e nessun personaggio è presentato con gloriosa ammirazione. Di fronte al maestoso caos della guerra, il codice d’onore samurai si dissolve nel seducente desiderio del potere assoluto, in cui la soddisfazione personale prevale sulla ragione e dà sfogo a una delirante e irriverente follia collettiva. Una storia impregnata di sangue e tradimenti, in cui scorgiamo i dettagli più controversi e bizzarri di una società ancora oggi fortemente gerarchica, che Kitano colpisce con esplicita sfrontatezza.
Emidio Sciamanna
Articolo pubblicato su “La Repubblica” il 28 novembre 2023