Grace Jones: modella, attrice, cantante, icona. Ma chi è la Donna che si cela dietro alla maschera del personaggio? Grace Jones: Bloodlight and Bami comincia proprio così, con la protagonista che si sfila una maschera rivelando il suo volto dai tratti duri ed androgini sulle note di Slave to the Rythm. Ad un fan che chiede quando reciterà in un altro film, lei risponde di avere già il suo.
Sophie Fiennes, la regista, ha raccolto il materiale per questo documentario nel corso di cinque anni, seguendo da vicino Grace nel suo peregrinare tra la Jamaica, terra natale, e Parigi, patria d’adozione. Il risultato è uno scorcio intimo, seppure frammentato, nella vita di un’artista che ha così fortemente influenzato l’immaginario pop degli anni ’80. A tratti, il documentario si interrompe proprio per lasciare lo spazio a performances magnetiche dalla forte potenza visiva, avvicinandosi alla forma del film-concerto. “Ho imparato tantissime cose di lei che mi hanno poi permesso di comprendere come concepisca le proprie performances; questa conoscenza accumulata mi ha permesso di girare le sequenze delle esibizioni con cognizione di causa,” ricorda la regista stessa nella conferenza stampa tenutasi questo primo di dicembre. Racconta, inoltre come abbia trovato nella “creatura del suo studio” anche una collaboratrice creativa fantastica, con una profonda conoscenza di sé: “era lei che decideva cosa volesse far vedere di sé come essere umano e per me era importante che questo aspetto emergesse insieme a quello della performer”. L’occhio della regista, infatti, non è mai inquisitorio, si pone esclusivamente come osservatore silenzioso riportandoci stralci di vita e di conversazioni, talune molto intime e private.
Senza ricorrere a filmati di repertorio o ad interviste, come una certa tendenza documentarista quando si tratta di donne nello spettacolo, Sophie Fiennes ci mostra Grace Jones nel qui ed ora: “Volevo creare un documento con l’intenzione, nella mia mente, solo di filmare e di continuare a farlo tenendo sempre presente la volontà di cogliere il massimo da ogni momento. Una volta in sala montaggio, ho adottato il punto di vista del “patologo” esaminando tutto il materiale. È il materiale stesso che mi ha guidato con le sue sollecitazioni: quello che il materiale può fare è spesso più stimolante rispetto ad un copione.”
Nella “banalità” della vita quotidiana sono molti i momenti sorprendentemente cinematografici catturati dall’obiettivo, come l’immagine dell’artista avvolta in una pelliccia, in piedi sulla soglia del balcone di una camera d’hotel dal quale cerca di mostrare lo skyline parigino. Il film, nella sua semplice struttura di alternanza tra performances e riprese quotidiane, deve moltissimo alla fotogenia di Grace Jones, alla sua presenza scenica anche quando non si trova affatto sulle scene, ma in una chiesa evangelica di Spanish Town, circondata dalla famiglia, con un cappello fantasia.
Un volto ed una fisicità che sembrano fatti apposta per essere immortalati dalla cinepresa; una donna attraversata da una grandiosità che ricorda quelle delle grandi dive, come Edith Piaf, mentre sorseggia champagne a colazione, e allo stesso tempo possiede la semplicità, la solitudine dell’artista. “L’essenza stessa del cinema è la fascinazione di un essere umano” e sicuramente l’immagine di Grace Jones non smette di affascinare, rimanendo però enigmatica e non svelandosi mai completamente come solo donna o solo artista. È probabile, dopotutto, che l’una sia inscindibile dall’altra.