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“CHIUSURA” BY ALESSANDRO ROSSETTO

Article by: Cristian Cerutti

Translated by: Simone Gasparini

Reviewing Chiusura by Alessandro Rossetti twenty-one years after its release makes the analysis of the film even more arduous. Seeing a world that doesn’t exist anymore and sensing the awareness that the world itself had that it had reached a terminal stage – the end of a millennium and all the fears attached to it – generates in the viewer a mixture of anxiety and tenderness. There is love for a fading past but, concurrently, there is the awareness that not much has changed. Even years later, the province remains a swampy, stagnant place that is difficult to escape from but, through the cinematic image, it simultaneously gains a romantic and fascinating appeal. It is precisely the ability to show this double soul of the province and this gap between fading tradition and advancing modernity that makes Alessandro Rossetto’s cinema great. Chiusura, as said by the director himself, is a film that, years later, has become a reflection of the passing of time.

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The documentary, which has been restored by Istituto Luce under Rossetto’s supervision, follows the closure of Mrs. Flavia’s hair salon after 44 years of activity. The director, an anthropology graduate, carefully examines the small gestures of this world, the words of the inhabitants who inhabit it, and the conflicts which animate it. Alongside this world, there are others: the circus which comes to town and the local women’s soccer team. The observation of these worlds focuses in the same way on the imperceptible rituals and conflicts, and on the personal emotions of the people who inhabit them.

However, hovering over this microcosm is the winter fog, a constant element of the film, which amplifies the feeling of stillness and even of finality, namely the closure of a period that has come to its end. Nevertheless, what stands out is the beauty of these elements and real cinema’s ability to give charm to the things of ordinary life. The feeling of paralysis transcends and becomes beauty: personal gestures, words and speeches become captivating and fascinating in the eyes of the viewer.

Elapsed time thus amplifies the experience of viewing Chiusura, to which the reflections on time and the end of an era are added in retrospect to a period that has now passed, but whose emotions and feelings remain incredibly vivid.

“CHIUSURA” DI ALESSANDRO ROSSETTO

Rivedere a ventuno anni dalla sua uscita Chiusura di Alessandro Rossetto rende ancora più ardua l’analisi del film. Vedere un mondo che non c’è più, percepire la consapevolezza che esso stesso aveva di essere giunto a una fase terminale, la fine di un millennio e tutte le paure a esso annesse, genera nello spettatore un misto di ansia e tenerezza. C’è l’amore per un passato che sta svanendo ma, allo stesso tempo, la consapevolezza che non molto è cambiato. La provincia rimane a distanza di anni un luogo paludoso, stagnante, a cui è difficile fuggire ma che attraverso l’immagine cinematografica ha un richiamo romantico e affascinante. È proprio la capacità di mostrare questa doppia anima della provincia e questo scarto tra tradizione che svanisce e modernità che avanza a rendere grande il cinema di Alessandro Rossetto. Chiusura, come detto dallo stesso regista, è un film che a distanza di anni è diventato una riflessione sul tempo che passa.

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Il documentario, restaurato sotto la supervisione di Rossetto stesso dall’Istituto Luce, segue la chiusura del negozio di parrucchiera della signora Flavia dopo 44 anni di attività. Il regista, laureato in antropologia, osserva attentamente i piccoli gesti di questo mondo, le parole degli abitanti che lo abitano, i conflitti che lo animano. A questo mondo se ne affiancano altri: il circo che arriva in città e la squadra di calcio femminile locale. L’osservazione di questi mondi si concentra allo stesso modo sugli impercettibili riti e conflitti, sulle emozioni personali delle persone che li abitano.

Ad aleggiare su questo microcosmo è però la nebbia invernale, elemento costante del film, che amplifica la sensazione di staticità e pure di fine, di chiusura di un periodo giunto ormai al suo termine. A spiccare però è la bellezza di questi elementi e la capacità del cinema del reale di dare fascino alle cose della vita comune. La sensazione di paralisi trascende e diventa bellezza: i gesti, le parole e i discorsi personali divengono ammalianti e affascinanti agli occhi dello spettatore.

Il tempo trascorso amplifica quindi l’esperienza di visione di Chiusura, a cui la riflessione sul tempo e la fine di un’era si aggiunge la riflessione a posteriori su un periodo che ormai è trascorso, ma le cui emozioni e sensazioni rimangono ancora incredibilmente vivide.

Cristian Cerutti

“MOLOCH”, DI ALEKSANDR SOKUROV

Moloch (1999), Taurus (2001), Il Sole (2005), Faust (2011). Quando Aleksandr Sokurov fa riferimento alla sua tetralogia, anche solo alludendovi fuggevolmente, in un istante comprendiamo che non possono esservi dubbi: si tratta di un unico organismo estetico. Complesso, ma unitario. Un corpus coerente, inscindibile nelle sue singole parti. La follia di Hitler, la malattia di Lenin, la de-divinizzazione di Hirohito: tutte fluiscono l’una nell’altra, convergendo, coadiuvate dalla putrescenza di Faust. Un’epopea della deformazione e del collasso – fisico e ideologico a un tempo – che, paradossalmente, fa corpo.

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“NUMBER ONE” BY GIANNI BUFFARDI

Article by Enrico Nicolosi

Translated by Elena Soldà

Thanks to the perfect restoration of the “Cinematography Sperimental Center”, particularly careful to the sound tracks editing (very important for the point of the movie), and the presentation in the “Back to Life” section of TFF39, the Turin audience was able to see, most likely for the first time, “Number One” by Gianni Buffardi (1973). The movie is pervaded by a conscious madness and clarity of purpose, often unknown to the “crime-genre movies”, which in that period filled Italian theatres

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“NUMBER ONE” DI GIANNI BUFFARDI

Grazie al perfetto restauro del Centro Sperimentale di Cinematografia, particolarmente attento a curare le tracce sonore (fondamentali per il senso del film), e alla presentazione nella sezione “Back to Life” del TFF39, il pubblico torinese ha potuto vedere, molto probabilmente per la prima volta, Number One di Gianni Buffardi (1973). L’opera, nonostante faccia della confusione il suo marchio distintivo e la sua ragion d’essere, è pervasa da una lucida follia e da una chiarezza d’intenti spesso sconosciuta ai “poliziotteschi” che in quel periodo inondavano i cinema italiani.

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JULY RAIN” BY MARLEN KHUTSIEV – “A GEORGIAN TOAST” BY GIULIANO FRATINI

Article by Luca Giardino

Translated by Paola Macchiarella

« There’s nothing mystic [in my cinema], please, try to understand. It is only about remembrance, preserving other people’s memory and knowing what to do with the past. »..

These words reveal the unpretentiousness of a great artist who has a clear aim: to use images to sculpt an irreversibly transformed world. The camera is the most suitable instrument for analysing the life of a country which is slowly forgetting about its recent past and starting to rediscover the joy of ancient times: an archaic love for life which regains its space on the movie film. Marcel Khutsiev, main director of the “new wave” developed in the Soviet Union following Stalin’s death, revives in the Back To Life section of the Torino Film Festival with his 1967 feature film Iyulskiy dozhd (July Rain).

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“JULY RAIN” DI MARLEN KHUTSIEV – “UN BRINDISI GEORGIANO” DI GIULIANO FRATINI

«Non c’è nulla di mistico [nel mio cinema], capitemi, ha semplicemente a che fare con la memoria, con la conservazione della memoria degli altri e cosa fare con il passato».

Queste parole rivelano la modestia di un grande artista nell’inseguire un obiettivo preciso: scolpire con le immagini un mondo ormai irreversibilmente trasformato. La cinepresa si rivela essere lo strumento perfetto per scrutare la vita di un paese che, a piccoli passi, dimentica il suo recente passato e comincia a riscoprire le gioie di tempi ben più lontani: un arcaico amore per l’esistenza che ritrova spazio sulla pellicola cinematografica. Marcel Khutsiev, regista di punta di quella “nuova onda” nata in Unione Sovietica dopo la morte di Stalin, rivive a sua volta sugli schermi del Torino Film Festival nella sezione “Back to Life” con il suo lungometraggio Iyulskiy dozhd (July Rain) del 1967.

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