«Cosa significa la parola casa per te?»
«È un luogo sicuro, in cui stai e non devi andartene.»
È subito esplicitato il fil rouge di Flee, documentario animato che concorre agli Oscar di quest’anno in tre categorie mai accumunate prima (Miglior Documentario, Miglior Film Internazionale e Miglior Film d’Animazione). Che cosa significa la parola “casa”? La domanda aleggia fin dai primi fotogrammi e racchiude in sé il dramma di una fuga mai conclusa, una straziante odissea nel cuore del protagonista, orfano sospeso e strappato alla sua terra d’origine. Nello spazio rassicurante dell’animazione e nella cornice di una seduta analitica condotta dal regista Jonas Poher Rasmussen, Amin Nawabi (pseudonimo che proteggere la sua vera identità) racconta per la prima volta la sua vita da esule, in fuga dall’Afghanistan in giovane età per salvarsi dagli orrori della guerra. Flee è, per lui, il primo luogo sicuro da tanto tempo. Lo spettatore lo percepisce, sa che può entrare in questa narrazione solo come ospite, in punta di piedi. Chiede permesso prima di varcare la soglia, per essere certo di non violare uno spazio costruito con tanta difficoltà.
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