Bleed for This presenta il suo protagonista in un modo insolito: avvolto dentro a strati di cellophane mentre pedala furiosamente su una cyclette, sudando come un rubinetto aperto. Poco dopo viene pesato davanti a una folla di cronisti: rientra nella categoria dei pesi leggeri per un soffio, e la sua partecipazione al grande match per il titolo mondiale viene confermata. Così inizia il nuovo film di Ben Younger – tornato al cinema a più di dieci anni di distanza dal suo ultimo lungometraggio Prime – un biopic su Vinny “The Pazmanian Devil” Pazienza, boxeur realmente esistito, magistralmente interpretato dalla star emergente Miles Teller (Whiplash, The Spectacular Now).
Tutti gli articoli di Bianca Beonio Brocchieri
“Free Fire” di Ben Wheatley
Dopo High-Rise, criptico adattamento del romanzo di James G. Ballard proiettato al TFF33, Ben Wheatley torna a Torino con Free Fire, un film in stile tarantiniano che pecca di virtuosismo e tenta spudoratamente di conquistare il pubblico con trovate di grande richiamo. Siamo nel 1970; la vicenda si svolge nell’arco di una sola notte, all’interno di una fabbrica abbandonata nel Massachusetts, dove una strana compagine di improbabili personaggi si riunisce per finalizzare uno scambio d’armi. I dieci trafficanti sono ben divisi in due schieramenti contrapposti, anche se non è difficile intuire che ognuno di loro nasconde qualche interesse privato, rendendo le alleanze fragili e mutevoli. Dopo un preambolo all’esterno della fabbrica, appena le scatole dei fucili vengono consegnate la tensione comincia ad aumentare a dismisura. Basterà pochissimo per far deflagrare un interminabile conflitto a fuoco che costituisce l’ossatura di tutto il film. Il cast stellare (Cillian Murphy, Brie Larson, Michael Smiley, Armie Hammer e Sharlto Copley) è costretto a strisciare, rotolare, urlare, prendere pugni e pallottole a oltranza, bruciare e sanguinare, senza mai abbandonare una leggera patina comica di battute taglienti, scambiate come se le parole fossero, a loro volta, dei colpi di fucile. I molti personaggi sono, letteralmente, duri a morire: come nei cartoni animati, i loro corpi possono subire ogni tipo di violenza, ma non smettono mai di combattere ed insultarsi.
Free Fire, però, punta troppo in alto. Dopo un promettente inizio carico di tensione, dal momento in cui viene sparato il primo colpo il film implode in un accumulo di stereotipi e azioni ripetitive. La comicità e l’intelligenza delle battute, alcune delle quali davvero memorabili, viene sommersa da una pioggia di proiettili vaganti e personaggi voltagabbana che non sanno più da che parte stare. Nei film d’azione, in particolare modo nel sottogenere dello sparatutto, è imprescindibile creare una definita geografia del campo di battaglia, a maggior ragione se la storia si svolge interamente in un capannone industriale. I personaggi hanno le idee confuse sulla generale disposizione di nemici e alleati all’interno della fabbrica (più volte, infatti, vengono colpite le persone sbagliate, con conseguenti insulti e scuse), ma questo non giustifica il grado di confusione che il regista induce nello spettatore. Rappresentare una guerriglia caotica non vuol dire necessariamente mettere lo spettatore nella stessa condizione dei personaggi. Il risultato è che dopo un’ora abbondante di pandemonio a fuoco, non ci sforziamo nemmeno più di capire chi spara e chi è stato colpito, perché non ci viene dato un numero sufficiente di coordinate per provare a farlo.
Nonostante tutte le strizzate d’occhio a Tarantino, Peckinpah e Scorsese (che è produttore esecutivo del film), Free Fire purtroppo non decolla. Rimane bloccato fra le quattro mura della fabbrica in cui confina la sua azione, senza mai ottenere il tanto cercato effetto cult che altri film d’azione sono riusciti ad ottenere senza così tanto sforzo.
“Roberto Bolle – L’arte della danza” di Francesca Pedroni
Nella danza classica solo due ballerini hanno creato delle cesure con il passato. Sono stati grandi spartiacque, figure che hanno saputo porre le basi per l’inaugurazione di una nuova era. Il primo è Rudolf Nureyev. L’altro, Roberto Bolle. Non è poca cosa paragonare un ballerino a Nureyev, ritenuto quasi all’unanimità uno dei più grandi danzatori del XX secolo. Ma Bolle e Nureyev hanno una caratteristica comune oltre, non c’è bisogno di dirlo, al sovrumano talento: hanno abbattuto le barriere della danza classica, raggiungendo un pubblico vastissimo e cambiando le regole del gioco.
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“Just Jim” di Craig Roberts
Craig Roberts è nato nel 1991 ed ha appena diretto il suo primo film, Just Jim, presentato nella sezione Festa Mobile del TFF33. Pare che per problemi di budget abbia deciso di affidare a sé stesso il ruolo del protagonista (ottima scelta, perché come diciassettenne triste funziona a meraviglia). Ma non finisce qui: Roberts ha anche scritto la sceneggiatura.
“Gone With the Wind” (“Via col vento”) di Victor Fleming
A settantacinque anni dall’uscita del film, nella sala due del Reposi viene presentata la nuovissima versione restaurata di Via col Vento in lingua originale. Veniamo subito informati che questa è la prima proiezione in Italia della nuova edizione e che il film dura 238 minuti, quattro ore senza intervallo. Un coro di bisbigli si solleva dalla sala, in molti scappano rapidamente in bagno, io corro a comprare un caffè americano doppio nel bar all’angolo. Continua la lettura di “Gone With the Wind” (“Via col vento”) di Victor Fleming
Gallery 25 novembre 2014
“THE DUKE OF BURGUNDY” DI PETER STRICKLAND
Il film di Peter Strickland The Duke of Burgundy è l’unica opera terza in concorso al TFF32.
Il tempo e il luogo dell’azione sono imprecisati. Siamo in una curiosa comunità interamente femminile che gravita attorno a un istituto di entomologia. Le donne, vestite secondo la moda anni ’60 e ’70, tengono letture scientifiche, si aggirano con aria assorta in bicicletta e vivono in vecchie ville gotiche ricoperte d’edera.
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“GEMMA BOVERY” DI ANNE FONTAINE
Normandia, Francia. Una coppia di novelli sposi si trasferisce in un piccolo paese in cerca di pace, serenità e tutte le altre promesse della vita di campagna. Lei si chiama Gemma, Gemma Bovery (Gemma Arterton), pronuncia all’inglese. La monotona vita del loro vicino di casa, il panettiere Martin Joubert (Fabrice Luchini), viene improvvisamente sconvolta dall’arrivo di quella che potrebbe essere l’incarnazione della suo personaggio letterario preferito. La fantasia del fornaio si scatena: come non leggere nel nome, nei modi e persino nel destino della donna un fantasma dell’eroina di Flaubert?