“LA SAPIENZA” DI EUGÈNE GREEN

La Sapienza, quinto lungometraggio di Eugène Green, presentato in anteprima al festival di Locarno quest’estate e film d’apertura della sezione Onde del TFF 32, racconta l’incontro tra due coppie.  La prima è costituita da Alexandre e Alienor Schmidt, marito e moglie, rispettivamente architetto e psicoanalista.

 La crisi di entrambi i coniugi, in superficie professionale ma di certo esistenziale, li conduce dalla Francia, il loro Paese, in Italia, nella suggestiva Stresa, dove si dividono, incrociandosi con un’altra coppia, composta dai fratelli Goffredo e Lavinia. Le nuove coppie, quella maschile tra Torino e Roma e quella femminile a Stresa, disarmoniche dal punto di vista anagrafico, cominciano parallelamente uno scavo duro e doloroso dentro di sé, attraverso la profonda empatia che si crea tra Alienor e Lavinia e il rapporto quasi pedagogico tra Alexandre e Goffredo. Alexandre, tra l’altro, diventa quasi la reincarnazione dell’architetto barocco Francesco Borromini: Green inserisce, attraverso il trait d’union della luce di architettura e cinema, un poco attendibile dossier sulle opere dell’artista (e di suoi contemporanei).

Fabrizio Rongione, ‘veterano’ dei fratelli Dardenne, che interpreta Alexandre, è in ottima sintonia recitativa con Christelle Prot, Alienor. Non si può invece riscontrare la medesima intesa dopo lo scambio delle coppie: in particolare Alexandre e Goffredo, ripresi in un continuo e sfibrante campo-controcampo per la maggior parte del film, risultano distanti, incapaci di comunicare in modo verosimile, emettono sentenze (che solo i grandi registi come Godard, maestro palese di Green, riescono a far funzionare con queste modalità) con toni piatti, rispettando le intenzioni del regista il quale ha più volte dichiarato la sua predilezione per la recitazione antinaturalistica.

All’inizio del film, utilizzando un espediente abusato come l’associazione tra immagini da cartolina (Stresa e soprattutto Roma) e musica simil sacra, Green sembra citare un altro incipit, quello de La grande bellezza di Sorrentino; a metà film invece, la rappresentazione degli italiani che emerge dal ridicolo dialogo tra il custode dell’Università La Sapienza e un bizzarro turista australiano, ricorda quella del film di Woody Allen ambientato a Roma, aspramente denigrato dalla critica. Un risultato di emulatio, quindi, molto discutibile per chi ha dichiaratamente ambizioni godardiane.

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