“WHITE PLASTIC SKY” DI TIBOR BÁNÓCZKI E SAROLTA SZABÓ

Il mondo tra cento anni. Nella Budapest del 2123 le persone sono costrette a donare il proprio corpo per il bene comune. La crisi ambientale ha infatti devastato il pianeta, ormai ridotto a una distesa arida su cui non cresce più nulla. Per questo motivo viene progettato un seme che, una volta impiantato, può trasformare l’essere umano in albero. Per la sopravvivenza dell’umanità, chiunque compia cinquant’anni deve subire questo processo.

Con un tema così complesso e attuale – la crisi climatica – a fare da sfondo, i registi ungheresi Tibor Bánóczki e Sarolta Szabó raccontano il complicato processo di accettazione di un cambiamento. Stefan (Tamás Keresztes) è uno psicologo che prepara migliaia di persone all’idea di una morte prematura, anche se lui per primo non riesce ad accettare la scomparsa della moglie Nora (Zsófia Szamosi). La donna, infatti, sconvolta dai traumi del proprio passato, decide di sottoporsi volontariamente all’impianto prima di aver compiuto cinquant’anni. Il livello visivo del film, articolato su due piani contrapposti, rende evidenti i conflitti e le trasformazioni. I protagonisti sono infatti interpretati da attori, le cui fattezze sono disegnate con la tecnica del rotoscoping, circondati da ambienti creati con modelli digitali in 3D. La stessa mutazione degli esseri umani viene rappresentata attraverso il passaggio da un tipo di animazione all’altra. Gli alberi sono infatti creati digitalmente e i soggetti che ricevono il trattamento vengono chiamati, non a caso, “ibridi”.

White Plastic Sky affronta il tema dell’emergenza climatica in maniera originale e poetica, filtrandolo attraverso la storia intima dei due protagonisti. Stefan capisce che la morte di Nora era ormai inevitabile e riesce ad accoglierla come un cambiamento, una trasformazione, e non un tragico epilogo. Allo stesso modo, il film ci mostra un ipotetico futuro del genere umano: nel momento in cui sarà ormai impossibile rimediare ai danni causati al pianeta, potremo provare almeno ad accogliere la fine come un passaggio di stato, una metamorfosi.

Articolo pubblicato su “La Repubblica” 1 dicembre 2023.

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