“MARIANNE” DI MICHAEL ROZEK

L’esordio alla regia di Michael Rozek è un racconto intimo e insieme universale. Un’architettura metacinematografica ardita ma coinvolgente che grazie alla presenza consapevole e fragile di Isabelle Huppert riesce a proporre una profonda riflessione sulla recitazione e sul cinema, sull’arte e sul tempo.

«Sono uno specchio» asserisce più volte Marianne Lewandoski (Isabelle Huppert), come a rammentare il rapporto reale e non solo presunto che condivide con lo spettatore, chiamato non più a subire l’opera che osserva ma a costruire uno scambio dialettico con il personaggio sullo schermo. Chi guarda è portato a ricondurre ciò che vede a un’esperienza personale, e quella dello specchio è solo la più evidente delle affermazioni che si susseguono nell’arco di tutta l’opera. Benché in apparenza personali e interiori, le parole di Marianne cessano di essere tali nel momento in cui una macchina da presa è pronta a scandagliare la loro essenza profonda, rivelandone non soltanto il significato narrativo ma cogliendone la rilevanza universale. Il flusso di parole che Marianne legge e interpreta assume quindi contorni assoluti, che trovano la loro unica possibilità di espressione nel volto ricco di sfaccettature e contraddizioni e nella voce sempre controllata dell’attrice francese.

Isabelle Huppert è dunque il tramite irrinunciabile del film. Ma ne è anche la vittima. E noi spettatori lo siamo con lei. Ci è infatti negata la possibilità di avere a che fare con un personaggio classicamente inteso: ne conosciamo nome e cognome, ma non possediamo altre informazioni a cui aggrapparci.

Sulle spalle dell’attrice grava l’intera narrazione del film: una narrazione, lo dice lei stessa, che, lungi dal poter essere veritiera, può limitarsi a raccontare dello scorrere del tempo. Dunque, alla domanda «Di cosa parla questo film?», che Marianne pone a sé stessa, non può rispondere altro se non: «Dura 90 minuti».

Davide Gravina

articolo pubblicato su “la Repubblica” il 26 novembre 2023

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