“KALAK” DI ISABELLA EKLÖF

La Groenlandia di Kalak è sterminata: le profonde insenature dei fiordi sono sormontate da ripide e scoscese pareti montuose, con le cime innevate. Kulusuk, piccolo villaggio della Groenlandia orientale, è composto da poche case isolate, dai tetti spioventi e dai colori sgargianti. È a Kulusuk che Jan (Emil Johnsen) si rifugia, con moglie e figli, dopo che la vita nella capitale, Nuuk, è diventata insostenibile. Non è la prima volta che Jan fugge da qualcosa: prima di vivere in Groenlandia, viveva in Danimarca, con il padre. Scappa da se stesso e dal proprio passato, alla spasmodica ricerca di un senso di appartenenza, di una collettività.

È per questo motivo che Jan, danese, vuole essere un “kalak”, uno “sporco groenlandese”. Il termine accoglie in sé altre sfumature di significato, non sempre positive, che hanno in comune un senso profondo di anarchia. Un “kalak” è qualcuno di “sporco” e di “genuino” al tempo stesso ma, soprattutto, può essere riconosciuto tale solo da altri groenlandesi. Questa agnizione non avverrà mai e, per questo, Jan prova a creare la propria comunità ricercando attivamente relazioni extraconiugali. Rapporti di cui, puntualmente, l’uomo informa la moglie, Laerke (Asta Kamma August), che accetta i tradimenti perché, in fondo, il marito è «tutto quello che ha». Le amanti di Jan sono numerose, ma ognuna di queste donne ha un elemento in comune con le altre: è di origine groenlandese. La smaniosa necessità di piacere alle donne nasce in risposta al trauma degli abusi sessuali perpetrati dal padre quando Jan era poco più che adolescente – elemento che, significativamente, costituisce la prima scena del film. Il fantasma del padre, ormai vecchio e malato, aleggia costantemente nella vita del protagonista, nonostante la distanza, e gli rende difficile rapportarsi stabilmente con gli altri. Anche nei confronti dei due figli – Amanda (Allie Maggie Kvist) e Markus (Bertram Krassèl) – Jan è un padre poco attento e spesso assente. Quando la bambina viene brutalmente assalita da un cane e deve essere trasferita da Kulusuk a Copenaghen, Jan, proprio per lo spettro del padre, non accompagna la figlia ferita e rimane da solo in Groenlandia, finendo in uno stato di isolamento totale e facendo ricorso agli psicofarmaci per sopportare il dolore. Proprio a sottolineare le ripercussioni su Jan del suo rapporto con il padre, il film si chiude – seguendo una struttura circolare – con un confronto finale tra i due uomini.

La Groenlandia messa in scena da Isabella Eklöf – e fotografata dall’abile Nadim Carlsen – è una terra dove prende vita un’elaborazione del trauma su più livelli: quello personale del protagonista e quello sociale di un popolo, quello groenlandese, che è stato vittima di complicate dinamiche di potere di stampo colonialista esercitate da un paese egemone, la Danimarca. Questi traumi vengono tramandati di generazione in generazione, stabilendo stratificate relazioni in cui i confini tra vittima e carnefice sono nebulosi e spesso una stessa persona, come Jan, può occupare entrambi i ruoli a seconda di chi ha di fronte. Quello che Eklöf suggerisce, con Kalak, è che, in ogni caso, essere stati vittima di qualcuno non è mai una giustificazione per diventare carnefici di qualcun altro.

Marta Faggi

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