“YANNICK” DI QUENTIN DUPIEUX

Una musica off dalla tonalità straordinariamente soave esce da un pianoforte sia all’inizio sia alla fine del film di Quentin Dupieux, in arte Mr. Oizo: è il sottofondo musicale ideale per accompagnare con grazia un’opera cinematografica meta-artistica da cui, seppur in maniera immancabilmente comica (come ormai ci ha abituato il gusto per l’assurdo e per il nonsense del regista), traspare un messaggio per e sull’arte che, lungi dall’essere fuori posto nella filmografia del regista, ben si amalgama alla denuncia della situazione ambientale di Fumer Fait Tousser (2022), al rapporto amicale di Mandibules – Due uomini e una mosca (2020) e all’estremo feticismo per le giacche scamosciate di Doppia pelle (2019).

Per il secondo anno consecutivo fuori concorso al TFF, l’estro irriverente del regista francese continua a deliziare il pubblico torinese. In quest’occasione il paradossale e l’onirico  sono appannaggio di un criminale incredibilmente comico che si improvvisa drammaturgo e regista teatrale: quello che apparentemente si potrebbe definire un raptus di follia, in realtà si rivela una decisione ben ponderata. Tramite questo “golpe artistico”, Yannick – nome del regista-criminale, titolo del film, e, chi lo sa, forse anche dell’opera teatrale che il protagonista mette in scena nell’ultimissimo atto – riesce a liberarsi da quella scomoda posizione cui è costretto lo spettatore: seduto e senza possibilità di interrompere lo spettacolo, sia esso teatrale, cinematografico o di qualsivoglia natura artistica, anche se questo non incontra i suoi gusti. Un vero e proprio ostaggio. «Ma il gusto è soggettivo» asserisce uno degli attori impegnati nella pièce comica Il cornuto. Ha perfettamente ragione: ma, come gli attori hanno il diritto di interpretare personaggi che ritengono gradevoli, così gli spettatori dovrebbero essere legittimati nell’esprimere il proprio parere, gli rinfaccia Yannick.

Il nostro protagonista supera però di gran lunga i limiti imposti dalla giustizia e il suo disappunto si trasforma in un’azione illegale, condita da un sapiente spirito umoristico creato dallo stesso Yannick: si gratta ininterrottamente la testa, si scaccola, compie gesti improvvisi, incontrollati e totalmente insensati, che seppur narrativamente giustificabili dalla situazione di stress in cui si ritrova per via dei suoi comportamenti, non possono non dar vita a una situazione bizzarra e grottesca.

Con Yannick Dupieux ci espone dunque la sua idea sull’arte: un’entità così potente da riuscire a provocare ostaggi allo stesso modo di un’azione criminale. A questa conseguenza fa dà contraltare l’ultimo primo piano del film: una lacrima di felicità e appagamento riga il volto di uno Yannick estasiato, investito dal processo catartico che solo la realizzazione artistica  può stimolare. Il film, però, non si chiude su quest’inquadratura poetica e azzarderei a dire dreyeriana, ma con l’arrivo a teatro della polizia, pronta a rovinare la prima del più spassoso degli “artisti per una notte”.

Davide Gravina

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