È una storia singolare quella di Chi mi ha incontrato, non mi ha visto. L’ultima fotografia di Arthur Rimbaud, l’ultimo film del regista milanese Bruno Bigoni. Un documentario travestito da mockumentary (o viceversa?), è la dimostrazione di ciò che è accaduto al regista dal giorno in cui una misteriosa donna francese gli propone l’acquisto di una fotografia che raffigurerebbe nientemeno che Arthur Rimbaud su un letto di ospedale, la gamba destra amputata e in mano un foglio su cui sono scritti alcuni versi inediti e mai pubblicati nelle opere del poeta bambino.
La passione “storica” di Bruno Bigoni per Rimbaud (che affonda le sue radici già nell’adolescenza del regista), non lo fa esitare nemmeno per un attimo: l’omaggio al poeta a cui sta lavorando, arrivato ormai a un binario morto, da questo momento si anima di una nuova linfa e si apre alla detection. Quella foto, una volta provata la sua autenticità, metterebbe in crisi quello che si è sempre sostenuto su Rimbaud: sapremmo con certezza che il poeta continuò a scrivere fino a prima della sua morte.
Ma come se ne prova l’autenticità? Come sappiamo se realmente è Rimbaud il soggetto della foto? Da questo momento comincia un viaggio folle, appassionato e appassionante alla ricerca di conferme che, forse, non si troveranno mai (o almeno non nel mondo accademico), se non nel proprio animo. “La cosa ha preso inevitabilmente una piega a dir poco drammatica anche se molto cinematografica”, scrive Bigoni nelle note di regia; le risposte scettiche di coloro che gli dicevano di lasciar perdere, contrastano con le parole della pronipote del poeta, madame Seville Rimbaud, intervistata da Bigoni durante le ricerche che lo hanno spinto fino in Francia, a Charleville, paese natale del poeta e anche sede del Museo Rimbaud: “Se lei vuole credere che quest’uomo nella foto sia Rimbaud, va bene…ci creda…solo questo è importante…”. Perché il nodo cruciale del film è questo: se si vuole credere, o no, in qualcosa, concetto che lo stesso Arthur Rimbaud sembrava già aver condensato in queste parole: “La vie est la farce à mener par tous”.
Alla conferenza stampa, insieme al regista, è presente anche la produttrice del film, Minnie Ferrara, che è a sua volta presente nel film, e che svela: “Quello tra me e Bruno è anche un gioco delle parti. Molto spesso Bruno si presenta da me con degli oggetti che mi sembrano assolutamente folli e io cerco sempre di riportarlo in una dimensione più razionale; ma questo è il modo in cui avvengono le cose tra di noi da trent’anni, e nonostante ciò i progetti di Bruno trovano sempre il modo di andare avanti molto liberamente”. Bigoni stesso afferma che il progetto era davvero particolare e ricorda anche solo la difficoltà di montarlo, gli sguardi dubbiosi della Commissione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (da cui il film è finanziato), che “mi ha chiesto di vedere del materiale prima, per capire cosa stavo facendo. Insisto però nel dire che questo non è solo un film su una grande storia d’amore, non è solo un film sulla poesia, non è solo una detection story; è soprattutto un film sul contemporaneo, sulla capacità di vivere una vita proprio come Rimbaud insegna, una vita che riesca ad andare al di là di quella che è la normalità, o l’apparenza.”
La vicenda prende una piega ancor più drammatica verso la fine, quando ricompare la misteriosa francese con un documento ancora più inedito di quello iniziale: la registrazione della voce di Rimbaud. L’affare scema nel nulla, e quando sembra tutto già parte del passato, il regista riceve un pacco anonimo sul quale è scritta la frase “Chi mi ha incontrato, non mi ha visto”, e il suo contenuto è proprio quell’audio. Alla fine del film sentiamo quelle parole che colpiscono lo spettatore con una forza potentissima e perturbante: “…non ho mai avuto un nome…”, comincia; lo schermo è nero, basta soltanto la voce.