L’horror è, insieme al musical, il genere che ha saputo maggiormente sfruttare le potenzialità della colonna sonora: la musica e il suono modificano la fruizione delle immagini entrando in stretto rapporto con loro, dando vita a un contesto polisensoriale che fornisce suggestioni ed inferenze, capaci di amplificare il significato della rappresentazione, creando un valore aggiunto.
Michel Chion descrive il concetto di valore aggiunto come “il valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce un’immagine data, sino a far credere, nell’impressione immediata che se ne ha o nel ricordo che se ne conserva, che quell’informazione o quell’espressione derivino naturalmente da ciò che si vede, e siano già contenute nella semplice immagine. Sino a procurare l’impressione che il suono sia inutile, e che esso riproduca un senso che invece introduce e crea”. Un meccanismo sfruttato fin dagli anni della Hollywood classica in cui, per ragioni di censura, si evitava di mostrare determinate sequenze efferate. Il suono aveva il compito di suggerire cosa stesse accadendo fuori dalla scena: basti pensare all’utilizzo che ne viene fatto in un film su tutti, Psycho di Alfred Hitchcock. Nella famosa scena della doccia, le coltellate inferte alla protagonista Marion (Janet Leigh), pur non venendo mai mostrate grazie a un gioco di montaggio, si imprimono nella mente dello spettatore suggerite dal tema di violini di Bernard Herrmann.
Dedicato al rapporto musica-immagini orrorifiche è lo schermo numero ventuno della mostra Soundframes che, attraverso cinque significativi frammenti cinematografici, ci porta ad osservare diverse soluzioni adottate dal cinema di genere.
Il primo spezzone è tratto da Profondo rosso di Dario Argento – nello specifico l’uccisione dello psicologo Giordani per mano dell’assassino. È interessante notare come il regista nella scena giochi con il suono : inizialmente lo psicologo è solo, e il silenzio della sua abitazione viene interrotto dal sussurro del killer, avvertendo così, vittima e spettatore, della sua presenza. Da qui prende avvio il tema musicale degli omicidi che si interromperà improvvisamente creando una sensazione di attesa, suggerendo che qualcosa di terribile stia per accadere. Si spalanca la porta, un burattino animato si lancia contro la vittima accompagnato da una inquietante risata infantile (la voce infantile è un altro elemento ricorrente del film); Giordani reagisce distruggendo la bambola e da qui riparte la musica precedentemente interrotta, che lo accompagnerà fino ai suoi ultimi istanti. La canzone che compone il “tema degli omicidi”, Death Dies dei Goblin, viene introdotta nel film con il primo omicidio, da qui in poi sarà riproposta in ogni occasione in cui l’assassino uccide, creando un senso di aspettativa nell’ascoltatore e collegando tra loro le morti.
La selezione procede poi con una sequenza da Halloween – la notte delle streghe di John Carpenter, che per il film ha anche composto le musiche. La scena mostra la fuga di Michael Mayers e si apre con l’iconico e riconoscibilissimo tema del film: un brano che ha un tempo dispari (5/4, come quella di Profondo rosso ma anche quella di L’esorcista) irregolare e innaturale, che cerca di suscitare nello spettatore un effetto disorientante e disturbante. Per amplificare questo effetto, Carpenter inserisce nella partitura quelli che lui chiama stingers (pungiglioni) cioè punti di sincronizzazione tra suono e immagine che vogliono enfatizzare la sorpresa visiva: in questo caso quando Michael salta sull’auto e quando la sua mano si allunga nell’abitacolo per stringere il collo dell’infermiera.
L’esposizione ci porta poi a Oriente, con una sequenza di quello che in Occidente è forse il più famoso film di fantasmi giapponese: Ringu di Chisui Takigawa. Nella scena una stridente melodia di violini costruisce un crescendo drammatico che va a coincidere con la graduale comparsa del fantasma, toccando il culmine nel momento stesso in cui lo spettatore, come il protagonista, scruta per la prima volta lo spettro negli occhi. Da qui la musica si confonde con l’urlo della vittima, come se questo facesse parte della partitura.
Violini caratterizzano anche l’ultimo degli spezzoni horror, quello dedicato a Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis. La breve scena è tratta dall’incubo notturno del protagonista,nella quale i violini sottolineano la corsa di David (David Naughton) nella brughiera londinese, interrompendosi quando questi scorge un suo doppio addormentato su un letto d’ospedale. La brusca interruzione del tema, unita alla visione decontestualizzata del letto e allo sdoppiamento del protagonista, creano un effetto di confusione che prepara a quello che vuole essere il jump scare della scena: il volto di David si trasforma in quello di un mostro e un urlo disumano squarcia il silenzio.
Questi non sono certamente i soli casi di cinema horror presenti nell’esposizione del Museo del Cinema. Il genere è infatti così longevo e trasversale che si possono trovare esempi di film dell’orrore in numerose sezioni e sottosezioni di Soundframes: dal già citato tema di violini urlanti in Psycho sullo schermo otto, a Spielberg e il suo gioco di presenza/assenza di musica ne Lo squalo nella sezione sulla New Hollywood, o ancora monster movie con King Kong.
Per capire quanto la musica possa incidere sull’atmosfera di un film horror, vi consiglio infine di visitare le stanze che chiudono l’esposizione. Qui, giocando con variazioni della colonna sonora originale, potrete rendervi conto di come il tema scelto da un autore come Kubrick riesca fin dai primi minuti di un film a creare un’atmosfera di aspettativa e paura. Cambiando il Dies irae che apre Shining con un’altra colonna sonora, possiamo assistere ad un drastico (e quasi comico) calo della tensione e delle aspettative, che priva il film della sua connotazione horror.