“LA OTRA FORMA” DI DIEGO FELIPE GUZMÁN

Da Orwell a Dick, da Brazil (Gilliam, 1985) a Flatlandia (Abbott, 1884), il lungometraggio d’esordio di Diego Felipe Guzmán, presentato in concorso alla ventiduesima edizione del ToHorror Film Fest, si rifà alle tradizioni fantascientifiche più tetre e alle tele cubiste più vivaci. Narrando di un futuro distopico ma non integralmente irrealistico, la stravagante animazione del film si rivela quale bizzarra ed eccentrica allegoria di un mondo odierno che saremo, forse, costretti ad abbandonare.

Abitanti di un mondo ormai semi-deserto, privato di ogni forma di vitalità animale e spogliato di qualsiasi creatività da forze ignote e invincibili che si palesano nel corso del film come scie d’aria colorate, gli umani bramano di abbandonare quella terra divenuta inospitale. Per prendere parte a quest’esodo, i terrestri sono costretti a trasformare il proprio corpo in precise forme geometriche grazie all’aiuto di macchinari futuribili. L’unica via per raggiungere la Luna, paradiso artificiale satellite che i cittadini di tutto il mondo agognano avidamente, è infatti essere spediti attraverso enormi parallelepipedi composti da corpi umani.

Anche il protagonista è spinto dalla stessa volontà, che lo porta però a superare “la quota 100”, quella che ogni uomo, donna e bambino deve raggiungere senza oltrepassarla, per avere possibilità di partire. Proprio per questo impeto che lo porta a violare le regole, al protagonista sarà vietata l’agognata partenza. Ed è qui che la reazione si impone. Una reazione che prende la forma libera di ribellione alla volontà di conformità imposta dal misterioso potere fascista e che passa per la surreale alleanza del protagonista con uno dei volti più rappresentativi del jet set, simbolo parodico delle concrete conduttrici televisive.

Nel tentativo di recuperare una libertà di espressione soffocata dalla cupezza e dal grigiore imperante e dall’imposizione formale , il protagonista dovrà superare la sua paura più recondita: togliersi l’apparecchiatura che gli costringe il viso in una forma rettangolare e allungata obbligandolo all’ascolto dell’insopportabile ‘rumore del mondo’: un suono che per gli esseri liberi è invece silenzio e libertà.

I limiti fisici entro cui i corpi umani sono costretti traducono visivamente l’oppressione voluta dall’invulnerabile élite governativa mentre il braccio ballerino dell’alleata del protagonista e il sorriso di quest’ultimo nel finale esprimono, al contrario, la vittoria della libertà spensierata su quella stessa rigidità imposta troppo a lungo.

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