A Venezia ha vinto il Premio speciale della giuria, ma Maresco a ritirare il premio non c’era. Se ne stava a casa, depresso e sfiduciato, a sfogliare i messaggi di congratulazioni che gli arrivavano sul cellulare. Tra i messaggi, come ha raccontato lui stesso a Emiliano Morreale in un’intervista pubblicata su La Repubblica, ce n’era uno del suo vecchio compagno di giochi Daniele Ciprì – mittente inizialmente non riconosciuto perché, sfiduciato e depresso, Maresco sul cellulare i numeri non li salva.
L’aneddoto, per quanto strano possa sembrare, ci aiuta a capire il film premiato a Venezia e ora visionabile nelle poche sale italiane che, incomprensibilmente, all’arte complessa ancora credono. Ci aiuta perché la vicenda, fosse anche poco sincera, permette di dare spessore emotivo a un film che a primo impatto non racconta altro che il disincanto del suo regista. L’aneddoto non solo, insomma, ci conferma l’idea di un regista nichilista e disperato – e d’altronde chi lo conosce, questo già lo sa -, ma scopre le ragioni profonde di un film la cui produzione, altrimenti, non sarebbe punto giustificata.
Il nuovo film di Maresco, infatti, non sembra avere niente di nuovo. Temi, personaggi e modalità discorsive sono identici al Belluscone di cui è il naturale seguito: anche in La mafia non è più quella di una volta si parla di mafia e lo si fa battibeccando col sottoproletariato palermitano che della mafia non vuol parlare. Insomma, nel sequel di questo dittico si percepisce senza innovazione la stessa brutalità mostruosa con la quale Maresco già in precedenza sottoponeva al pubblico ludibrio la schiera (selezionata) degli omertosi disagiati deformi. Ora: nella nuova opera, la vivisezione antropologica delle tribù grottesche che popolano le no-go zones parlermitane (buona parte della vicenda è ambientata allo ZEN, quartiere off limits persino per le forze dell’ordine) fa male a vedersi non per l’orrore sociale e cognitivo che mette a nudo, ma per l’insopportabile assenza di un sentimento di pietà nella macchina da presa del regista siciliano. L’assenza, però, e qui torniamo all’aneddoto iniziale, è solo apparente: la compassione c’è, ma ben celata allo sguardo perché è fondamentalmente una sconsolata autocommiserazione.
In La mafia non è più quella di una voltaMaresco parla di sé. La galleria di freaks che oltraggia lo schermo con l’omertà e la bruttezza è l’altro profilo di un uomo che dialetticamente, dall’impegno politico (o meglio: antipolitico) passa senza soluzione di continuità al disincanto esistenziale di cui è infelice portatore. E così dal Maresco/Dr. Jekyll ci si ritrova improvvisamente in compagnia del Franco/Mr. Hyde. Questa dialettica interpersonale che Maresco affronta quotidianamente guardandosi allo specchio mentre non risponde al cellulare dei suoi ex-sodali impegnati, è trasposta filmicamente nella battaglia senza colpo ferire tra Letizia Battaglia (che impersona quel Dr. Jekyll che Maresco in fondo sa di essere, o perlomeno esser stato) e il Ciccio Mira già protagonista della prima fatica del dittico in esame. Il film, infatti, ma lo diciamo pur ritenendolo superfluo, racconta di due sguardi contemporanei sulla mafia: quello serio e non compromesso della fotografa ottantenne (“seri, non ridete!“, intima la Battaglia a delle ragazzine in posa durante una manifestazione antimafia) e quello gattopardesco dell’impresario dell’avanspettacolo neomelodico siciliano.
La novità, quindi, c’è: se nel fenomenale Belluscone la vicenda (rap)presentata si limitava all’originale excursus in quelle frange sociali che si erano fermate al tempo della “mafia di una volta” (che bel bianco e nero in quei ritratti!), nel nuovo film di Maresco l’excursus è solo un mezzo attraverso il quale esprimere questo doppio sentimento del regista palermitano: da un lato amico di Letizia Battaglia e dell’impegno sociale, dall’altro padre assente dei suoi mostri antisociali un po’ beckettiani.
Detto questo – in maniera forse confusa, ma l’opera di Maresco è un oggetto anomalo che confonde ogni sua possibile interpretazione – il film, se non preso in quest’ottica di autoanalisi del regista stesso, non convince. Da un lato quel quarto d’ora finale, per quanto con le pinze possa esser preso, è poco riuscito, o per lo meno poco onesto intellettualmente: le allusioni nemmeno tanto sottili a Sergio Mattarella sono pretestuose e per altro troppo incidentali, poco organiche rispetto al resto del docufilm. Dall’altro lato il minutaggio consistente di Mira gli fa perdere quell’aura allucinante che lo (de)saturava in Belluscone, rendendolo iconico un minuto dopo la visione del film. In La mafia, invece, l’insistita presenza scenica lo trasforma da persona in personaggio: troppo vicino e costante per permettere al pubblico di sorprendersi continuamente di fronte alle sue false verità, la sua verosomiglianza vacilla e lui perde consistenza reale, risultando al più una maschera buffa col copione.
Postilla finale per la colonna sonora di Salvatore Bonafede, un contrappunto à la Kurt Weill su un testo filmico che, ad occhio attento, ricorda per più di un aspetto la dialettica brechtiana. Fa specie, in ultimo, una battuta di Ciccio Mira: poco prima che vada in scena il suo spettacolo neomelodico per Falcone e Borsellino, spiega a Maresco il perché della presenza sul palco di una danzatrice del ventre: “la gente si deve divertire!”. Pochi giorni dopo la prima veneziana, Matteo Renzi alla presentazione di Italia Viva spiega a tutti che vuole, infine, un partito divertente. Ecco, viene da pensare, tra uomini dello spettacolo ce la si intende.