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“Whe Are What We Are” di Jim Mickle

Quello che ci fa paura di più

Chi ha detto che un remake è un film inferiore rispetto all’originale? Certamente se il nuovo prodotto non contiene nulla di più – se non addirittura meno – di quanto c’era nell’originale, allora la risposta non è altro che un “doppione”.  Molte recenti operazioni di questo tipo ne sono la prova (Carrie di Kimberly Pierce, per fare un esempio). Ma se invece si parte dal prodotto originale come idea iniziale e poi si decide di prendere una strada completamente differente lavorando su elementi nuovi, allora si può realizzare qualcosa di più: si pensi a The Departed – Il bene e il male di Martin Scorsese in rapporto con Infernal Affairs di Andrew Lau. Sono due prodotti completamente autonomi. Whe Are What We Are è una re-imaging del film messicano Somo lo que hay di Jorge Michel Grau (2010). Se il “prototipo” è ambientato fra le strade di Città del Messico, Mickle ambienta il suo film nella provincia di Castkills, la più povera dello Stato di New York, da tempo tormentata dalle alluvioni. Proprio una di queste fa emergere numerose ossa umane sepolte a poca distanza dalla casa della famiglia Parker, da poco in lutto per la morte della madre. La famiglia è dominata dall’autoritaria figura paterna di Frank, che obbliga i tre figli (due adolescenti, Iris e Rose, e il piccolo Rory) a un periodo di digiuno forzato in vista di un rituale di cui la figlia maggiore Iris (una volta morta la madre) diventa l’officiante principale. Questo rituale consiste nell’uccidere giovani donne e poi sfamarsi delle loro carni.

Proprio a questo punto il film di Mickle si discosta ampiamente dall’originale: nutrirsi di carne umana non è qualcosa legato soltanto a una routine alimentare, o di ancestralmente necessario, bensì significa prendere alla lettera la pagina del Vangelo in cui cristo invita gli uomini a nutrirsi del suo corpo (non a caso la storia si sviluppa fra il Venerdì e la Domenica). Il cannibalismo, in Whe Are What We Are è anche qualcosa di atavico, primitivo, che sopravvive nelle culture tribali per le quali il corpo del nemico sconfitto trasmette la sua forza al vincitore che lo divora.

Le vittime sono ragazze, e la vicenda ruota principalmente attorno alle due figlie maggiori: poco più che adolescenti, rivelano una sessualità prorompente che il padre-padrone elimina sul nascere. Nutrendosi dei corpi sessualmente attivi (o acerbi) delle vittime le ragazze acquisterebbero la capacità di sopire l’impulso sessuale. La tentazione della carne viene sconfitta grazie alla carne.

Il cinema di genere, in particolare dell’orrore, ha sempre messo in campo le incertezze e le paure dei tempi in cui è stato girato. Jim Mickle, che si è nutrito da sempre di cinema horror (i suoi film preferiti sono La casa di Raimi e Suspiria di Argento), utilizza i clichés dell’horror come strumenti per avanzare una critica contro le istituzioni. Lo aveva già fatto in Mulberry Street (2006) e in Stake Land (2010). Qui, con una impostazione da film gotico, mette nel mirino la religione, la sua follia, il suo lato più nascosto. Prendendo alla lettera Stephen King, il quale sostiene che “per spaventare gli altri bisogna parlare di qualcosa che spaventi anche noi”, imbastisce un film cupo. E la paura dell’ignoto che ci propina la religione fa più paura di qualsiasi altra cosa.

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