“UN BEL MATTINO” DI MIA HANSEN-LØVE   

Parigi, oggi. Sandra (Léa Seydoux) è una traduttrice e interprete vedova da cinque anni con una figlia piccola a carico, che si ritrova a fare i conti con la malattia degenerativa del padre (Pascal Greggory), ex professore universitario di filosofia, una situazione familiare turbolenta e una relazione extraconiugale con un amico di vecchia data, Clément (Melvil Poupaud). Il tutto avrà un forte impatto su di lei e sul suo modo di vivere e la spingerà a osservare il mondo da un’altra prospettiva.

Sorprendentemente, non è l’ambientazione parigina dalle tinte pastello, né la rappresentazione semplice e diretta della quotidianità di Sandra a colpire di Un bel mattino di Mia Hansen-Løve – qui all’ottavo lungometraggio, che prende spunto dalla sua esperienza personale; a offrire lo spunto più interessante per leggere il film è il mestiere svolto dal personaggio di Léa Seydoux (alla piena maturazione recitativa, né troppo eccessiva né troppo in sottrazione), cioè quello di interprete. Un tramite, quindi, un “medium” per raggiungere uno scopo. Tutto il film rimanda al concetto di tramite: lo sono gli occhi il cui uso è precluso a Georg, padre di Sandra, affetto dal morbo di Benson, che porta a una progressiva interruzione della elaborazione visiva complessa; sono un tramite i numerosi libri che ha letto, che ne restituiscono la personalità, e gli struggenti quaderni che ha scritto prima di perdere la vista, depositari dei suoi ultimi attimi di vita pienamente vissuta; è un tramite lo spettrometro di massa il cui funzionamento Clément, di professione cosmo-chimico, si affanna a spiegare a Sandra.

Questo elemento offrirebbe al film tanta carne da mettere al fuoco dal punto di vista della resa formale; invece, Hansen-Løve decide di farsi prendere la mano dalla diegesi, e riempie le quasi due ore di durata di un flusso ininterrotto di avvenimenti (tra cui spicca la storia d’amore tra Sandra e Clément, a tratti ossessiva), relegando peraltro in secondo piano quello che dovrebbe essere il cuore della vicenda, cioè il rapporto tra padre e figlia; lo stile minimalista della messa in scena è efficace, ma niente di più, e il montaggio troppo rapido strozza quasi ogni tentativo di sospensione contemplativa. D’altronde, il titolo in questo senso dice già tutto: Un bel mattino, la formula di rito che nella narrativa per l’infanzia generalmente annuncia che qualcosa sta per accadere al protagonista del racconto. E di cose, effettivamente, nel film ne succedono. Hansen-Løve sembra dimenticare – o, comunque, lo ricorda solamente sul finale – che il medium è anche il messaggio, e che oltre a essere un tramite per raccontare una storia, dovrebbe anche poterla “incarnare”.

Alessandro Pomati

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