L’ultima opera di Albert Serra non è un film. Liberté è un esercizio compiuto di negazione e al contempo affermazione prepotente del cinema in quanto tale.
A determinare questa considerazione è la genesi stessa dell’opera: prima di essere un film, Liberté è stato una pièce teatrale dello stesso Serra. Innumerevoli messe in scena hanno subito questo processo; per troppe poche, la scelta è stata dettata dalla precisa volontà di sfruttare appieno le possibilità della rappresentazione tramite il nuovo mezzo. Liberté è un’indagine sulla finzione, è una teorizzazione sulle specificità del cinema: il montaggio, il fuori campo e – scontato ma spesso bistrattato – lo zoom. L’opera si inserisce dunque nella scia di un dibattito teorico che procede da oltre un secolo, dividendo gli intellettuali tra i sostenitori del cinema come arte completa e coloro che lo considerano mutilato, inferiore alle arti sue sorelle maggiori.
Ci si trova quindi davanti ad un’operazione che è una provocazione in toto, su più livelli. La componente sessuale, specie quella non comunemente intesa, risulta già di per sé provocatoria ai più. La particolarità della sua rappresentazione è un’ulteriore sfida. «Due ore e mezza di attori abbandonati sul palcoscenico»: è una critica sulla messa in scena teatrale – negativa, certamente – che a Serra piace citare. È esattamente questa l’idea che il regista si propone di ricreare e amplificare sul set cinematografico: abbandonare il mélange attoriale in quella porzione di bosco, porsi a distanza con le macchine da presa e lasciare che siano gli attori a comandare l’azione, del tutto impossibilitati tuttavia di controllo sull’immagine finale. Lo zoom si insinua non visto tra le nudità esposte; i tempi vengono dilatati all’esasperazione e i punti di vista mescolati; il montaggio viviseziona le riprese snaturandole; il fuoricampo intensifica all’estremo l’esigenza della mente dello spettatore di dare una costruzione logica alla lunga notte settecentesca a cui sta – relegato anche egli al fuoricampo – prendendo parte. Attori e pubblico sono, in ultimo, alla completa mercé del regista, che pur dichiara il suo lavoro sul set essere improntato al laissez faire. Divengono entrambi, contro la loro volontà, voyeur disorientati di una finzionale celebrazione del sadismo. Tanto che, una buona parte del pubblico in sala si alza e abbandona la proiezione. E il “sadico” Serra non può che compiacersene. C’è infatti una consistente dose di auto-compiacimento del regista nell’opera, il che probabilmente rende difficile approcciarla e comprenderla senza conoscerne l’unico effettivo personaggio e protagonista: Albert Serra.
Non ci si illuda che il rompicapo si esaurisca tutto qui, in questo happening sessantottesco ripreso col gusto di sfidare la pratica cinematografica. Il forte sottotesto politico-sociale è ciò che ha catturato l’attenzione di molti, che vi hanno letto una non celata critica al capitalismo. Più che questo, Serra certamente propone una propria interpretazione più generale sul valore e sull’utilità – o meglio, l’impossibilità – delle utopie. Il film conclude infatti una sorta di trilogia dell’Illuminismo, dal quale il regista sembra essere particolarmente ossessionato: l’età dei Lumi come epoca di gestazione di grandi utopie, ma anche come culla embrionale del suo stesso contrappunto, il Romanticismo. Liberté scava il fallimento perpetuo dell’utopia, facendo collidere la sensibilità reale degli attori con un film in costume. La morte del desiderio, il membro non eretto, divengono il simbolo dell’incapacità odierna di abbandonarsi e darsi all’altro, in una società in cui prevale l’escludente proiezione su se stessi.
L’alba si intravede tra le fronde della radura insinuandosi nei meandri di questa notte perenne. L’inverosimiglianza delle luci sugli alberi silenziosi segna un ultimo, esasperato, smacco alla Liberté, facendo coincidere la chiusura della realtà del film con l’inizio della vera finzione.
Ada Turco
LIBERTÉ (Francia-Spagna-Portogallo, 2019, 132’, col.)
regia, soggetto, sceneggiatura Albert Serra
fotografia Artur Tort
montaggio Ariadna Ribas, Albert Serra, Artur Tort
scenografia Sebastian Vogler
costumi Rosa Tharrats
musica Marc Verdaguer, Ferran Font
suono Jordi Ribas
interpreti e personaggi Helmut Berger (Duc de Walchen), Marc Susini (Comte de Tésis), Iliana Zabeth (Mademoiselle de Jensling), Laura Poulvet (Mademoiselle de Geldöbel), Baptiste Pinteaux (Duc de Wand), Théodora Marcadé (Madame de Dumeval)
produzione Pierre-Olivier Bardet, Joaquim Sapinho, Albert Serra & Montse Triola