Dopo il grande successo di The Lobster (2015) e The Killing of a Sacred Deer (2017), Yorgos Lanthimos aveva spiazzato pubblico e critica portando sul grande schermo The Favourite (2018), un film che a detta di molti non rispecchia a pieno il suo inconfondibile stile. Con l’uscita del cortometraggio Nimic nel 2019, il regista greco sembra invece ritornare in sintonia con le sue opere precedenti, allontanando gli assurdi sospetti intorno al presunto “talento bruciato” o all’autore caduto nella “trappola hollywoodiana” colpevole di averlo privato della sua originalità stilistica.
Uno dei motivi che spingono il regista a ritornare sui vecchi passi è sicuramente la collaborazione con Efthymis Filippou, suo fidato co-sceneggiatore che da anni lavora ai suoi film. Il duo infatti confeziona un’opera molto vicina ai loro primi lavori come Dogtooth (2009) dove la tipica asetticità dei dialoghi e la brutale freddezza dei rapporti umani risultano molto marcati.
In Nimic ci viene presentata la monotona vita di un violoncellista (Matt Dillon) e della sua famiglia alle prese con la schizofrenica ripetitività del quotidiano. Alcune azioni, come la routine della colazione alternata alle esercitazioni musicali del protagonista, vengono interrotte da un incontro in metropolitana tra il musicista e una misteriosa sconosciuta. Alla richiesta dell’uomo di fornirgli l’ora, la donna risponde dopo un breve silenzio domandandogli la stessa identica cosa. Da quel momento in poi l’uomo non avrà pace, vedendo passare la sua vita come un testimone nelle mani della ragazza, che si approprierà di ogni aspetto della sua quotidianità e della sua carriera.
Come in quasi tutte le opere del regista, la particolarità che contrassegna Nimic è la stretta correlazione tra le tipiche soluzioni stilistiche – le carrellate laterali, il frequente uso di obiettivi grandangolari, la posizione bassa della macchina da presa e il martellante uso della colonna sonora – e le forme del contenuto che, in questo caso, hanno a che fare con l’atavica paura del doppio e la crisi d’identità. In quest’ultimo film, forse aiutato dai tempi più ristretti (dodici minuti), Lanthimos sembra riuscire meglio di ogni altro suo lavoro a filtrare queste inquietudini ancestrali attraverso una brillante calibrazione del linguaggio cinematografico, confermando il suo grande talento nel trasportare sullo schermo il perturbante in tutte le sue grottesche sfumature.
Il regista indaga proprio ciò che sta al di fuori del familiare, ciò che non viene riconosciuto e compreso ma allo stesso tempo passivamente accettato. Crea un ambiente ostile che soffoca e schiaccia i personaggi nel loro piccolo mondo, mostrando il loro spaesamento attraverso le solite affannose carrellate e la decostruzione dei rapporti. Una ricerca dominata dal tempo, vero e proprio interruttore di questo assurdo meccanismo circolare e senza fine.
Per comprendere la caotica essenza di Nimic e il suo evidente messaggio politico bisogna chiedersi, proprio come fanno il violoncellista, la donna a inizio film e il ragazzo afroamericano più tardi, che ore sono: siamo alle porte di un tempo segnato dal ribaltamento dei ruoli sociali e familiari – come la mascolinità sfuggente di Matt Dillon eclissata dal suo doppio femminile – o si tratta di un eterno ritorno alla triste monotonia del quotidiano? Lanthimos non dà una risposta precisa ma si limita a sottolineare, attraverso un grande esercizio di stile, l’eterna fragilità dell’identità umana intrappolata tra gli automatismi della nostra realtà.
Luca Giardino
Il film è disponibile su Mubi.