Per scrivere il suo nuovo libro, la scrittrice Francesca Melandri compie una lunga ricerca tra Italia ed Etiopia, sul passato di suo padre Franco durante la dittatura fascista, trovando in lui una persona profondamente razzista che, una volta finita la guerra, ha preferito eliminare dalla memoria la sua connivenza con il regime. Nell’indagine sul genitore, però, la scrittrice si imbatte inevitabilmente in racconti collettivi riguardanti la guerra d’Etiopia, che scopre essere stata una delle pagine più violente della storia italiana.
Sabrina Varani decide di narrare nel suo documentario questa lunga e dolorosa ricerca, intrecciando presente e passato, mostrando quest’ultimo nella sua integrità: spesso infatti la guerra d’Abissinia, quando non è stata quasi rimossa, è stata narrata come una coesistenza non dolorosa e senza le sue atrocità e violenze. Passando dal particolare all’universale, il film si presenta quindi come un’indagine sull’Italia tutta, che ha censurato le atrocità compiute durante l’occupazione d’Etiopia, non facendo un processo alle idee fasciste e razziste, ma semplicemente eliminandole o cercando di dimenticarle. In ciò consiste la diversità italiana rispetto agli altri Paesi sconfitti del dopoguerra, primo fra tutti la Germania, perché l’Italia non ha avuto una rielaborazione collettiva del proprio passato, ma ha prevalso la volontà di ricostruzione. Nel costante passaggio tra presente e passato, il film si chiude mostrando come l’ideologia fascista, nonostante siano passati più di settant’anni dalla caduta del regime, sia, in qualche modo, ancora presente.
Se Franco ha raccontato numerose bugie alla sua famiglia, l’autrice del romanzo Sangue giusto prende solo spunto dalla figura paterna per dare vita al protagonista del suo scritto, avviando in questo modo, non senza nasconderla, una sottile riflessione sulla differenza tra realtà e finzione, fatti storici e fiction.