Bodybuilder, tassista, ladro e mercante d’arte: Walid detto The Beast è la prima persona che il regista Marco Proserpio ha incontrato dopo aver attraversato il checkpoint da Gerusalemme a Betlemme. Durante il tragitto l’enorme tassista gli ha raccontato di come ha asportato quattro tonnellate di cemento con l’opera Donkey with the Soldier di Banksy e le ha messe all’asta su Ebay per 100.000$.
Proserpio ha intuito la moltitudine di temi che si sarebbero potuti sviluppare da questa conversazione con Walid, e ha saputo intrecciare abilmente questioni strettamente legali a riflessioni sul mondo dell’arte contemporanea e il suo mercato, mantenendo sempre l’attenzione sulla questione palestinese. Il nome di Banksy è infatti solo un’insegna luminosa che attira la curiosità, è il pretesto per parlare della West Bank e degli abitanti di Betlemme, le cui opinioni, nel documentario, hanno lo stesso valore di quelle di avvocati, artisti rinomati, collezionisti, restauratori e curatori.
The Man Who Stole Banksy racconta, con l’attitudine da thriller e la linearità del documentario, la storia di questo graffito che non ha riscontrato la simpatia del popolo palestinese. La figura dell’asino ritratta ha infatti causato fraintendimenti ed antipatie, benché, in genere, questo tipo di arte venga apprezzata in quanto parte di un’estetica sovversiva e di una cultura contestatrice dal forte impatto politico.
La lavorazione del film è stata lunga e complessa, non solo per i molti argomenti trattati ma anche perché non è stato facile rintracciare i protagonisti della trattativa e seguire il percorso dell’opera da Betlemme a Londra, passando per Copenaghen. Dopo diversi anni, viaggi, tematiche approfondite e pareri raccolti, il film trova la sua solidità e la sua personale voce anche grazie a Iggy Pop, una sorta di Virgilio punk che ci aiuta a districarci tra le questioni spinose che il film solleva.
In un mondo in cui frammenti di muro possono essere venduti per centinaia di migliaia di dollari, viene naturale il parallelismo tra il film di Proserpio e il documentario The Price of Everything di Nathaniel Kahn– presentato al Sundance 2018 – che racconta come spesso il mercato dell’arte vada contro la volontà degli artisti stessi, che preferirebbero vedere le loro opere esposte nei musei piuttosto che battute all’asta come speculazioni o capricci. Nel mondo della street art raccontato da Proserpio, il volere dell’artista è espresso nell’opera stessa, perché un muro è ancora più democratico di un museo; le opere di street art, la loro deteriorabilità e la loro stessa fruibilità, sono strettamente legate al contesto urbano in cui vengono realizzate. È quindi indubbio che quest’arte sia di tutti, ma se Banksy realizza congegni per distruggere le sue opere all’asta e Blu, come ci racconta anche il regista, si cancella dai muri di Bologna per protesta, diventa fondamentale chiedersi chi siano questi “tutti”: i palestinesi che possono beneficiare dell’attenzione mediatica? I restauratori e i curatori che cercano di preservarla? I collezionisti che decorano le proprie case? Walid che monetizza per la comunità?The Man Who Stole Banksy non risponde a queste domande, ma è proprio l’intento di parlare delle diverse opinioni in maniera imparziale che non confonde lo spettatore ma lo lascia serenamente libero di farsi una propria idea.