Tutti gli articoli di Cristian Cerutti

“PARKLAND OF DECAY AND FANTASY” DI CHENLIANG ZHU

In un saggio sul legame tra reenactment e fantasmatico, Bill Nichols riflette su come tale tecnica sottolinei lo scarto tra presente e passato, ma anche tra percezione soggettiva e oggettiva degli eventi. In questo modo, il reenactment crea una dimensione fantasmatica che annulla l’idea di oggettività totale e ne evidenzia la sua impossibilità. In Parkland of Decay and Fantasy, presentato all’interno del concorso Documentari Internazionali del TFF40, è l’immagine digitale a svolgere la funzione descritta da Nichols: le nuove tecnologie e in particolar modo la loro possibilità di intervento sull’immagine – come nel caso del finale visionario – rendono possibile l’evocazione visiva dei fantasmi al centro della narrazione di Parkland of Desire and Fantasy[1].

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“CHIUSURA” DI ALESSANDRO ROSSETTO

Rivedere a ventuno anni dalla sua uscita Chiusura di Alessandro Rossetto rende ancora più ardua l’analisi del film. Vedere un mondo che non c’è più, percepire la consapevolezza che esso stesso aveva di essere giunto a una fase terminale, la fine di un millennio e tutte le paure a esso annesse, genera nello spettatore un misto di ansia e tenerezza. C’è l’amore per un passato che sta svanendo ma, allo stesso tempo, la consapevolezza che non molto è cambiato. La provincia rimane a distanza di anni un luogo paludoso, stagnante, a cui è difficile fuggire ma che attraverso l’immagine cinematografica ha un richiamo romantico e affascinante. È proprio la capacità di mostrare questa doppia anima della provincia e questo scarto tra tradizione che svanisce e modernità che avanza a rendere grande il cinema di Alessandro Rossetto. Chiusura, come detto dallo stesso regista, è un film che a distanza di anni è diventato una riflessione sul tempo che passa.

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Il documentario, restaurato sotto la supervisione di Rossetto stesso dall’Istituto Luce, segue la chiusura del negozio di parrucchiera della signora Flavia dopo 44 anni di attività. Il regista, laureato in antropologia, osserva attentamente i piccoli gesti di questo mondo, le parole degli abitanti che lo abitano, i conflitti che lo animano. A questo mondo se ne affiancano altri: il circo che arriva in città e la squadra di calcio femminile locale. L’osservazione di questi mondi si concentra allo stesso modo sugli impercettibili riti e conflitti, sulle emozioni personali delle persone che li abitano.

Ad aleggiare su questo microcosmo è però la nebbia invernale, elemento costante del film, che amplifica la sensazione di staticità e pure di fine, di chiusura di un periodo giunto ormai al suo termine. A spiccare però è la bellezza di questi elementi e la capacità del cinema del reale di dare fascino alle cose della vita comune. La sensazione di paralisi trascende e diventa bellezza: i gesti, le parole e i discorsi personali divengono ammalianti e affascinanti agli occhi dello spettatore.

Il tempo trascorso amplifica quindi l’esperienza di visione di Chiusura, a cui la riflessione sul tempo e la fine di un’era si aggiunge la riflessione a posteriori su un periodo che ormai è trascorso, ma le cui emozioni e sensazioni rimangono ancora incredibilmente vivide.

Cristian Cerutti

“RODEO” DI LOLA QUIVORON

“Penso che uno dei grandi soggetti del film sia il corpo di Julia […] Ero ossessionata dall’idea che fosse il suo corpo femminile a creare la narrazione” Lola Quivoron

Negare il nome che ci è stato assegnato alla nascita significa aprire le porte a una serie infinita di nuove possibilità e aspettative. Questa negazione e rimodulazione continua dell’identità è ciò che insegue Julia, protagonista di Rodeo di Lola Quivoron, presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

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Julia, cresciuta in un ambiente disagiato nella periferia di Parigi, trova la propria possibilità di fuggire da se stessa attraverso la sua passione per le moto e per i rodeo, termine che identifica nel mondo motociclistico pericolosi eventi clandestini dove i piloti si esibiscono in evoluzioni simili a quelle degli stuntman. È proprio a uno di questi eventi che accade l’incidente da cui parte la vicenda: durante un rodeo a cui Julia partecipa con una delle tante moto che ruba nel corso del film, Abra – l’unico ad aver mostrato simpatia alla ragazza – muore in un incidente. Da questo punto inizia il difficle processo di elaborazione del lutto che si sviluppa sia nella dimensione psichica che sociale di Julia: Abra, che ritorna costantemente nei sogni di Julia dopo la sua morte, lascia un posto vacante all’interno del gruppo di bikers (tutti maschi) cui apparteneva, i B-More.

Julia si inserisce allora in questo vuoto scalandone le gerarchie e iniziando un classico percorso di ascesa e caduta della protagonista. Proprio le modalità con cui Julia scala le gerarchie del gruppo sono l’elemento più interessante di Rodeo: la protagonista si presenta infatti negando la propria identità precedente e identificandosi come “La sconosciuta”. Questa assenza di identità le permette di performare ruoli e comportamenti diversi nelle varie situazioni in cui si trova, assumendo vesti differenti e un’identità camaleontica e non definibile. Si trasforma così in una figura sfuggente, un personaggio difficilmente incasellabile sia nei comportamenti che nell’appartenenza di genere, una figura che spiazza continuamente le persone che le stanno intorno. Elemento chiave di queste trasformazioni è proprio il corpo della protagonista che si modifica continuamente e cambia il suo aspetto esteriore a seconda della situazione e delle persone che lo circondano.

È questo lavoro sul corpo che fa del film un’opera fatta di carne, sangue, sporco e motori e gli conferisce un’affascinante dimensione visiva che punta un coinvolgimento quasi fisico dello spettatore, una dimensione quasi fashion, in cui molto spazio viene dato al legame tra musica rap e motori.

Cristian Cerutti

“NOPE” DI JORDAN PEELE

Uno dei concetti che più hanno fatto discutere negli ultimi anni in campo filosofico è quello di iperoggetto. Formulato dal filosofo Timothy Morton, un iperoggetto è qualcosa “la cui caratteristica principale è quella di esistere su dimensioni spazio-temporali troppo grandi perché possa essere visto o percepito in maniera diretta”[1]. Come umani, non possiamo percepire direttamente gli iperoggetti, ovvero ne siamo immersi a tal punto da non poterli esperire direttamente, se non tramite i loro effetti. Iperoggetto per eccellenza, secondo Morton, è quindi il cambiamento climatico, fenomeno di portata talmente ampia da sfuggirci se non nei suoi effetti locali. Detto questo, come il cinema si pone nei confronti degli iperoggetti?

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“PETITE MAMAN” DI CéLINE SCIAMMA

Il ticchettio di un orologio accompagna i titoli di testa. Compare una donna anziana: “Alexandrie”. La donna suggerisce a una bambina la risposta alla domanda di un cruciverba. Nelly, la bambina protagonista del film, si alza e inizia a camminare, seguita in long take dalla macchina da presa, entrando nelle varie stanze a salutare le abitanti di una casa di riposo. Nell’ultima incontra la madre intenta a svuotare la camera della nonna della bambina appena deceduta. Nel prologo di Petite Maman di Céline Sciamma si trovano in nuce tutti i temi che caratterizzano il film: lo scorrere del tempo, il lutto, il dire addio.

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AVI MOGRABI – MASTERCLASS / “THE FIRST 54 YEARS – AN ABBREVIATED MANUAL FOR MILITARY OCCUPATION”

Il titolo della masterclass del regista israeliano Avi Mograbi, Breve manuale per liberare il cinema dal reale – incursioni documentarie di Avi Mograbi, è decisamente esplicativo. Riflette quello del suo film presentato nella sezione TFFDoc / Fuori concorso: The First 54 Years – An Abbreviated Manual for Military Occupation, e sottende il medesimo approccio: partire dalle immagini specifiche – nel caso della masterclass i lungometraggi Z32 (2008) e The First 54 Years, nel caso del film l’archivio di interviste dell’associazione Breaking the Silence – per ricavare nei rispettivi campi di pertinenza – la strategia militare e il cinema documentario – delle riflessioni più ampie e applicabili in contesti differenti.

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“C’È UN SOFFIO DI VITA SOLTANTO” DI MATTEO BOTRUGNO E DANIELE COLUCCINI

“Perché una donna non può chiamarsi Luciano?”
Lucy Salani

C’è un soffio di vita soltanto, presentato nella sezione “Fuori concorso / L’incanto del reale”, racconta la storia di Luciano Salani, la transessuale più anziana d’Italia, segnata dalla sopravvivenza al campo di concentramento di Dachau. Partendo dall’idea di realizzare un documentario sulla storia di una sopravvissuta, Botrugno e Coluccini si trovano di fronte a una figura che va ben oltre qualsiasi possibile incasellamento. Lucy è fluida, sfaccettata, aliena. Una fluidità che emerge fin dalla scelta di mantenere il proprio nome di battesimo: Luciano. La proposta di modificare ufficialmente il suo nome al femminile, fatta più volte a Lucy, ha sempre ricevuto infatti una risposta negativa. Il nome non viene visto come un’etichetta per definire il proprio gender, ma rappresenta la memoria dei propri genitori, una memoria che forgia la personalità di Lucy Salani.

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“ALL LIGHT, EVERYWHERE” DI THEO ANTHONY

Un occhio si rivolge alla camera. La camera entra per esaminare il nervo ottico da cui si dipartono i collegamenti verso il cervello mentre la fredda voce over spiega come esso sia responsabile della ricostruzione dei dati ricevuti. Una ricostruzione che però non è mai neutrale, ma sempre influenzata dalle strutture culturali in cui siamo immersi. La sequenza di apertura di All Light, Everywhere, espone da subito l’intento che sta alla base del saggio per immagini diretto da Theo Anthony: ribaltare la dialettica tra osservatore e osservato per dimostrare come storicamente sia stata celata dai portatori dello sguardo al fine di nascondere quanto a essa si leghi la gestione del potere.

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