Tutti gli articoli di Luca Richiardi

“Terrore nello spazio” di Mario Bava – Conferenza stampa

Nicolas Winding Refn e Fulvio Lucisano si presentano nell’affollatissima sala conferenze in pompa magna; ad affiancare il giovane e allampanato regista danese e lo storico produttore italiano ci sono due ragazzi con indosso i costumi originali del film, quelli degli astronauti che, ci rivela Lucisano, non erano “poi così buoni” a detta di Mario Bava, il quale per questo motivo volle che le loro tute richiamassero le divise naziste.

Mario Bava, come è noto, non ha mai amato la qualifica di autore: si è sempre considerato un artigiano finito, per ragioni personali, a lavorare nel cinema. Ma questo, ammonisce Refn, non deve trarci in inganno: Terrore nello spazio è un capolavoro non solo nell’ambito dei generi horror e sci-fi (affiancabile ai più celebrati Blade Runner e 2001: Odissesa nello spazio), ma nell’ambito del cinema italiano in senso assoluto, alla pari dei migliori lavori di autori come Fellini e Visconti.

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Nicolas Winding Refn

Refn racconta alla stampa quali sono le origini del suo amore per Bava, nato attraverso gli schermi delle televisioni americane che ipnotizzavano per ore il piccolo Nicolas nella sua casa di New York. Sorridendo ci racconta come dovesse eludere le strette regole imposte dalla madre sull’uso della tv e come proprio la madre, con il suo background artistico e politico, ha influenzato la fascinazione del piccolo Refn per la pop art sia a livello di design, sia a livello di fashion. Questa fascinazione si rispecchia in Terrore nello spazio perché tutto ciò che si vede nel film di Bava avrebbe potuto figurare in una mostra di Andy Warhol, dalle surreali scenografie agli attillati costumi di pelle che donano una componente erotica e omoerotica alla vicenda.

 

La severa educazione materna generò inoltre in Refn una sana sete di ribellione. Se la madre era hippie e pacifista, l’adolescente Refn amava Ronald Reagan, la guerra, il cinema muscolare e violento, i film di genere che, nel ventennio precedente, era dominato dal marchio italiano. Egli non ha mai nascosto il suo amore per questo tipo di cinema che molti considerano di serie B (un altro dei suoi film preferiti è Città violenta di Sergio Sollima), ma quando gli viene chiesto se troveremo qualche riferimento ad esso nel suo prossimo film, Neon Demon, si chiude nel silenzio. Il film è ancora in fase di lavorazione, ci dice, per ora è soddisfatto, e presto ne sapremo di più.

Quello che sicuramente sappiamo è che già nei suoi film precedenti gli omaggi al cinema italiano di genere non sono mancati. Il segno più forte, sottolineato da lui stesso, è nel feticismo e nell’erotismo che caratterizza Drive, il suo film più noto. Proprio come le tute degli astronauti di Terrore nello spazio, anche la giacca del silenzioso guidatore non è altro che un sostituto della pelle nuda: un catalizzatore di erotismo. Per Nicolas Winding Refn fare cinema è proprio come fare sesso: una sperimentazione continua spinta da una passione irrefrenabile.

“The Hallow” di Corin Hardy

Come reagisce una coppia giovane e innamorata di fronte all’ignoto?

Le cose più antiche e fondamentali dell’esistenza, quando vissute in prima persona, possono avere su di noi effetti terrificanti. L’ignoto si nasconde nella nascita di un figlio, nel modo in cui questo evento modifica la percezione del rapporto di coppia tra i genitori; l’ignoto si trova nelle leggende, nel folklore, nelle fiabe che si raccontano (o si raccontavano) ai bambini.

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“The Devil’s Candy” di Sean Byrne

Nel profondo Sud dell’america rurale, la mitica terra dei good ol’ boys, insomma in Texas, c’è una giovane e amabile famigliola che cerca casa. Il padre, Jesse, è un pittore, e ha trasmesso la propria passione per la musica metal alla figlia adolescente, mentre la madre lavora in un salone di bellezza; tutto sommato, una normalissima famiglia moderna.

Ma, ottenuta con grandi sacrifici la casa dei loro sogni, essi scoprono che questa è stata il teatro di efferati delitti compiuti da un uomo, un killer deforme obeso modellato sul serial killer John Wayne Gacy (l’attore, Pruitt Taylor Vince, già aveva interpretato un personaggio curiosamente simile ma allo stesso tempo opposto in Constantine). Le voci che lo tormentano lo costringono ad uccidere bambini e giovani ragazzi per soddisfare l’ingordigia del suo demoniaco Maestro, che è, nientepopodimeno, il Diavolo in persona, il quale ha messo gli occhi sulla figlia adolescente di Jesse – quella che lui considera “la caramella più dolce di tutte”.

Sean Byrne è il regista di questo film, un horror in cui la musica fa da protagonista. E’ musica di un genere particolare, quello metal, anzi thrash metal (Metallica, Slayer, Megadeth), e la colonna sonora viene costantemente messa in risalto per dettare i tempi del montaggio e il gusto visivo di scenografie (pareti tappezzate di poster), costumi, magliette e tatuaggi dei protagonisti. Il punto di forza del film è proprio nel soddisfare i fan di questo genere musicale con continui riferimenti ed omaggi ai suoi “mostri sacri”.

Avrei voluto e potuto amare The Devil’s Candy per l’ambientazione, le musiche e la cultura metal e le tematiche sataniste. Ma, purtroppo, non bastano gli ingredienti giusti per preparare un buon piatto. Per fare un buon piatto, come un buon film, ci vogliono soprattutto esperienza, senso della misura, capacità di improvvisare e uscire dal tracciato con sicurezza.

Proprio come accade spesso per il genere di musica che intende omaggiare, questo film finisce per essere ripetitivo, incapace di sorprendere, e soprattutto senza il mordente necessario per impaurire. Non c’è abbastanza drammaticità o tensione, il sangue cola poco, il mostro cattivo è un bambinone che non spaventa – se non quando impugna una pistola per breve tempo maneggiandola proprio come farebbe un bambino, il che crea il momento di maggior disagio dell’intero film.

Le musiche, per quanto belle, sono incapaci di sorreggere la tensione per l’intera durata del film, ed è discutibile che appartengano soltanto al thrash metal, escludendo generi come il death, black e doom che avrebbero reso meglio il senso di malvagità, oppressione e pericolo che la presenza demoniaca/omicida avrebbe dovuto creare. Anche la partecipazione del gruppo musicale Sunn O))) ai sound effects, per quanto apprezzabile, è limitata dalla costante ripetizione del medesimo tema (il sussurro del demonio) che diventa fin troppo familiare e perde rapidamente ogni mordente.

Appaiono insomma troppo presenti la mano del regista, i suoi gusti personali, la sua voglia di far sposare immagini e musiche ad ogni occasione, e il film ne soffre in scorrevolezza, ma non è comunque sconsigliato a priori: ha i suoi pregi e troverà sicuramente un suo pubblico.

“Real oni gokko” (“Tag-Tag”) di Sion Sono

Life is surreal.

Ci sono film che faticano a trovare un’anima e arrancano in mille direzioni; film che combinano il vuoto del proprio senso al tedio della visione stessa. Ecco, questo film è l’esatto opposto di tutto ciò.

Tag-Tag di Sion Sono è un film che irrompe violento in ogni direzione per poi riuscire (letteralmente e figurativamente) a tirare le fila del proprio discorso nella conclusione; un film che disorienta la percezione, ma non per celare la sua ricerca disperata di un senso smarrito, anzi. Il senso del film ha bisogno di un disorientamento totale per poter emergere nella coscienza dello spettatore. Ma sicuramente non di uno spettatore qualsiasi, perchè Tag-Tag è pur sempre un film di Sion Sono, nonché un film profondamente giapponese, che parla di e alla propria cultura e nazione, e che risulterà criptico ad uno spettatore occidentale che si trovi a digiuno di pop culture nipponica. Per questo tipo di spettatore il rischio è quello di non saper interpretare il potenziale di critica sociale nascosta dietro eccessi di violenza grottesca che possono quindi risultare divertissement fini a sé stessi: ovverosia all’incirca quello che è definito in maniera gergale (soprattutto negli ambienti di cultori manga, anime e videogames) come fanservice.

Cos’è il fanservice? Violenza eccessiva e gratuita, studentesse con gonne supercorte e che per giunta si sollevano continuamente, erotismo, promiscuità,  reificazione della donna. Tutto ciò è presente in Tag-Tag. E’ buttato sullo schermo in modo sfrontato, esagerato, volutamente provocatorio. Come a chiederci: “è questo che volete?” Più il film avanza e più il gesto di ridere divertiti davanti a tutto ciò diventa un gesto colpevole. Questo carrozzone di assurdità che tanto può divertire, questo paradiso per adolescenti nerd, nasconde un inferno crudele, agghiacciante, che si rivela di minuto in minuto, mentre seguiamo Mitsuko, la giovane protagonista, nel suo calvario assurdo.

Fra tutta questa violenza e morte, ciò che più ferisce è la perdita di identità della protagonista che la rende un recipiente vuoto, un manichino uguale a tanti, una figura cristica, e, pertanto, destinata al sacrificio. Un sacrificio necessario, un gesto spontaneo che sfugge a questa logica di tortura in funzione di un godimento sadico, compiuto all’interno di una parodia che accusa proprio le masse di fans ossessivi.

Un sacrificio eroico, ma a quale scopo? E’ chiaramente il medesimo scopo che ha il film: compiere un sabotaggio interno al sistema, che possa quindi penetrare a fondo e, si spera, risvegliare qualche coscienza per sottrarla a questo grottesco girone infernale.

“Shinjuku Suwan” (“Shinjuku Swan”) di Sion Sono

Nell’universo manga ed anime vi sono molti generi.

Lo shonen, ovverosia il genere d’azione e combattimento dedicato ad un pubblico di adolescenti e giovani adulti, è sicuramente tra i più popolari, nonché probabilmente il più noto al di fuori del Giappone. DragonBall, One Piece, Naruto, sono alcune fra le serie più famose nel genere, viste da milioni di ragazzi in Italia come in tutto il mondo; sono opere profondamente legate a cliché (le cui radici talvolta affondano nella mitologia orientale), percorse da personaggi caratteristici e sorrette da strutture narrative spesso prevedibili nel loro sviluppo.

Shinjuku Swan è l’adattamento di uno di questi manga shonen, girato da Sion Sono nel suo impegnatissimo 2015 (ben cinque film in uscita). Ed è un adattamento che non stravolge queste strutture e cliché, ma li adegua ai tempi cinematografici e alle necessità legate al trasferimento dell’azione tipica di fumetti e di film d’animazione in un film live-action. L’obiettivo di Sion Sono è evidentemente quello di soddisfare tanto il pubblico affezionato all’opera originale quanto i neofiti o coloro che sono interessati solamente al film in sé. L’operazione è delicata, ma la mano del regista è sapiente e rispettosa, e l’operazione si può considerare un successo.

Nel protagonista Tatsuhiko ritroviamo, secondo uno dei cliché più noti del genere, un personaggio già visto mille volte: un bonaccione, uno scapestrato dal cuore d’oro violento con i prepotenti, gentile con i deboli. Insomma un Goku, un Luffy o un Naruto, per ricollegarci ai manga più noti. La novità sta nel microcosmo in cui questo personaggio è calato, che è tutt’altro che mitico e fantastico: si tratta del quartiere di Tokyo dei locali a luci rosse e del gioco d’azzardo Shinjuku, dove l’eroe è un ragazzo di strada senza un mestiere che viene casualmente reclutato da una agenzia di scouting per prostitute.

Ma in realtà anche questo microcosmo non si sottrae alle regole caratteristiche del genere: i pestaggi frequentissimi lasciano ben poche tracce sull’eroe e sui suoi amici, un po’ gangsters papponi e un po’ monaci zen indifferenti al dolore (persino una palla da bowling in faccia guarisce con un paio di cerotti). Personaggi larger than life sono inseriti in strutture gerarchiche ben definite che ci danno immediatamente un’idea delle loro capacità e restituiscono una narrazione semplice da interpretare, immediatamente soddisfacente soprattutto per un giovane spettatore.

I meccanismi della storia sono, quindi, quelli noti, ben oliati e perfettamente funzionanti, e per chi li conosce ed apprezza la soddisfazione sta nel vederli girare con estrema precisione e sicurezza, lasciandoci totalmente liberi di apprezzare la bellezza nascosta in ogni dettaglio: nelle coreografie dei combattimenti, nei costumi, nella scenografia, nei dialoghi misuratamente esagerati, nelle gag da puro slapstick.

Da lodare, infine, l’estrema parsimonia nell’uso di CGI (Computer-Generated Imagery), uno strumento spesso abusato nel genere dei cinecomics, a discapito del realismo e della sensazione di solidità dei corpi; in Shinjuku Swan ogni corpo è palpabile, ogni pugno è percepibile, ogni gemito di sofferenza dei personaggi viene rispettato e valorizzato, per la soddisfazione ed il divertimento dello spettatore.