Un giorno ti svegli, ti scotti la mano con il te bollente e decidi tuo malgrado di diventare un uomo d’azione, di abbattere il guscio di indolenza che ha segnato la tua monotona quotidianità e vestire i panni tanto agognati di un altro – meglio ancora se di tuo fratello gemello – e tornare indietro nel tempo per sventare il tentativo – maldestro ma pericoloso – di salvare il Terzo Reich dalla disfatta. Un equivoco dopo l’altro scatena il cortocircuito di situazioni tragicomiche che coinvolgeranno il protagonista e i comprimari di Tomorrow I’ll Wake Up and Scald Myself with Tea, non trascurando di evidenziare, diegeticamente e attraverso metafore simboliche, una marcata critica sociale al consumismo sfrenato e massificato.
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“NEW GROUP” DI YUTA SHIMOTSU
Se sei cerchio non puoi nascere quadrato (o triangolo); ma puoi provare a cambiare e a pensare con la tua testa. In New Group, il regista Yuta Shimotsu mostra giovani liceali ligi al dovere, chiamati a reattività e performatività ad alti standard; ragazze e ragazzi che devono obbedire a regole prescritte e imposte dagli adulti, che sanno meglio e prima di loro come inserirsi nella società. Infatti, far parte di un gruppo è altamente necessario per non sentirsi esclusi e fuori dal coro. In New Group l’orrore, tuttavia, non si avvale dei facili cliché caratteristici del genere di riferimento. Sono i sottili confini che permeano la normale ordinarietà a rendere inquietante e brutale un sistema gerarchico soffocante e disfunzionale, nella sua messa in opera estrema.
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L’intento di Stéphane Ghez in questo documentario è penetrare la filmografia – e di conseguenza il genio – di David Lynch fino a condurre lo spettatore nelle radici profonde delle sue storie, dove c’è posto solo per gli enigmi architettati con grande maestria da uno dei registi più eclettici di sempre.
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Alla 25ª edizione del TOHorror, nella sezione “matter(s) of time”, non poteva mancare La clessidra, film apolide di Wojciech Jerzy Has che sfugge a ogni definizione. In un celebre saggio, Cvetan Todorov colloca il fantastico in uno spazio liminale tra lo strano e il meraviglioso. Sospeso nell’indecidibilità surrealista che sfuma la realtà nell’onirico, il film appartiene – e allo stesso tempo si sottrae – alla categoria del fantastico. Tra il grottesco di Fellini e la poesia di Parajanov, Has rilegge e tradisce le irrappresentabili opere di Bruno Schulz in una temporalità che, più che all’oltre-realtà, guarda all’oltretomba.
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Una carica di energia dal fascino ultraterreno che scende fluttuante su una cupa brughiera dà inizio a Voidcaller, l’ultimo film di Nils Alatalo. Un film girato in economia, da cui il giovane regista svedese ha saputo trarre forza attraverso una poetica punk seducente e un approccio minimalista, capace di sfruttare i limiti tecnici a proprio vantaggio.
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Fréwaka, il secondo lungometraggio della regista e scrittrice irlandese Aislinn Clarke, è un coraggioso tentativo di esplorare i lati più oscuri dell’uomo contemporaneo, attanagliato da traumi che emergono dall’incontro con un passato disturbante.
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Tra gli alberi in un bosco di un’anonima località nordamericana, una creatura non-morta si risveglia dal sottosuolo dove era stata sepolta per vendicarsi di un sanguinario torto subito nel passato. Questa è la premessa di In a Violent Nature di Chris Nash, presentato in concorso alla 24° edizione del TOHorror, che, per quanto sia un tipico slasher movie, con evidente richiamo a Venerdì 13 (1980), si delinea progressivamente come un’interessante disamina sul rapporto preda e cacciatore: non tanto quindi una decostruzione post-moderna del genere, a cui una certa produzione horror contemporanea come la trilogia X di Ti West ci ha abituati, quanto un approfondimento di ciò che ne costituisce la sostanza, quella natura violenta di cui fa appunto riferimento il titolo del film.
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Il 23° TOHorror Fantastic Film Fest omaggia i 15 anni di uno degli horror più violenti e divisivi degli anni 2000, un vero e proprio punto di non ritorno per la New French Extremity. Un anniversario non casuale quello dei quindici anni, che crea uno strano cortocircuito con il tempo della narrazione del film. Diviso in tre parti, tre tappe diseguali e in una certa misura incongrue stilisticamente (un prologo ambientato quindici anni prima fatto di traumi infantili e indagini della polizia, una seconda parte da revenge movie al femminile, una terza che vive senza la protagonista e si espande fino a toccare il misticismo e la filosofia), Martyrs è una riflessione complessa sul (non)senso delle sofferenze umane e – sorprendentemente – sull’amore.
Lucie è una bambina vittima di torture che viene ritrovata in strada dalla polizia. Nell’istituto in cui viene ospitata stringe un forte legame con Anna, che la sostiene durante le visioni e i flashback che la tormentano. Quindici anni dopo, Lucie riconosce i suoi aguzzini da una foto sul giornale e si reca a casa loro per vendicarsi. Anna la segue, ma non sa che la sua compagna rimarrà uccisa e inizierà per lei un calvario nelle grinfie di un’organizzazione disposta a tutto per scoprire che cosa può vedere dell’aldilà un essere umano sospeso fra la vita e la morte.

Ciò che continua ad affascinare di Martyrs è proprio il ruotare con prepotente insistenza teorica intorno al concetto di visione, alla sua potenza e alle sue infinite possibilità e al contempo alla sua totale, nichilista insensatezza. Il film stesso è un’orribile esperienza di visione al servizio del nulla, una sevizia gratuita che si concretizza plasticamente nell’ultima scena del film, con la negazione della rivelazione, dell’immagine che Anna è riuscita a portare indietro dall’estasi del martirio, la risposta ultima al senso della vita umana. “Rimanga nel dubbio”: è la beffa e l’invito finale, la consolazione paradossale che ci resta. Una frase lapidaria che riconsidera l’immaginazione contro il reame dell’occhio-certezza, l’abbandonarsi completamente alla vita, al flusso senza sosta della sofferenza, guidati solo dal filo di Arianna della nostra umanità (la voce di Lucie che sorregge Anna lungo le stazioni della croce, la musica dolce che Laugier sovrappone alle ultime scene di tortura). L’ultima cosa che lo spettatore vede è un super8 di Anna e Lucie bambine, quindici anni prima, che giocano nel parco dell’istituto. Un piccolo frammento estrapolato dal filmato di documentazione che la polizia mostra ad Anna all’inizio del film e che, risemantizzato negli attimi estremi del film, diventa la testimonianza intima di un aldilà illusorio ma sempre negato, come il cinema stesso.
Irma Benedetto
“MAD HEIDI” DI JOHANNES HARTMANN E SANDRO KLOPFSTEIN
Nella 22° edizione del ToHorror Film Festival, si sta notando grande interesse per la rivisitazione dark di grandi favole per bambini: dalle fascinazioni per il Mago di Oz che ha contaminato la filmografia di David Lynch – cui saranno dedicati diversi omaggi nella giornata di domenica 23 ottobre – fino ai Freakshorts in cui si arriva addirittura a uccidere il povero Babbo Natale. Se la Disney ha voluto il più delle volte edulcorare i gotici racconti dei fratelli Grimm salvando le principesse dal triste destino a cui le favole letterarie le vincolavano, si sta riscoprendo in questi ultimi anni “il lato oscuro” delle storie per l’infanzia, da Hansel e Gretel – Cacciatori di streghe (Wirkola, 2012) a Cappuccetto Rosso Sangue (Hardwicke, 2011) fino alla prossima uscita di Winnie the Pooh: Blood and Honey (Waterfield, 2022). Insomma, al pubblico piace vedere i sogni trasformarsi in incubi, cercando il brivido da vivere insieme nella sala oscura cinematografica. E infatti, Mad Heidi è stato prodotto interamente tramite crowdfunding dagli appassionati del genere (o meglio, dei generi, tra favolistico, splatter ed exploitation) e ha raccolto oltre 2 milioni di franchi svizzeri per la sua realizzazione.
Il primo film della Swissploitation si presenta totalmente libero da qualsiasi controllo produttivo e creativo, portando sullo schermo con fierezza una rivisitazione gore dell’icona svizzera dell’innocenza. Presentato in anteprima nazionale in una sala da sold-out al ToHorror22, Mad Heidi sguazza nell’epica del trash in un amalgama citazionista e spudorato. Il film rinnega fin dalle prime inquadrature l’emblema di una Svizzera rurale, proponendo la rivisitazione distopica di un Paese ormai industrializzato che vive sotto l’assoluto controllo di un magnate del formaggio che combatte la concorrenza dei contrabbandieri-pastori ed elimina gli intolleranti al lattosio con torture alla fonduta.

A fare scuola, ci sono i grandi classici da grindhouse: il film si destreggia tra omaggi a Rodriguez e addestramenti alla Kill Bill, ma non si lascia scappare neanche citazioni da Apocalypse Now, riferimenti a Il Gladiatore”, né i sottogeneri dedicati alla prigionia femminile e le gag metaculturali, in un minestrone riscaldato che esalta i propri cliché per restituire al pubblico un B-movie che ha il merito di saper sfruttare le potenzialità del proprio territorio, convertendo l’exploitation americana in un prodotto made in Switzerland che ruoti attorno a riferimenti culturali autoctoni. Non ci sono più caprette che fanno ciao, né monti che sorridono felici: la Heidi di Johannes Hartmann e Sandro Klopfstein è una sanguinaria vichinga tirolese che cerca vendetta per le sofferenze dei suoi cari, una Inglourious Basterd simbolo della lotta antifascista. A metà strada tra il grottesco e la parodia, Heidi non risparmia colpi a nessuno; perché quando giunge l’ora della vendetta, in Svizzera – si sa – arriva puntuale.
Sara Longo