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“RAZZENNEST” DI JOHANNES GRENZFURTHNER

Parlare di Razzennest non è certo compito semplice. Quando si deve scrivere dei film d’autore, quei film che impongono il maiuscolo all’intero vocabolo e non soltanto alla lettera iniziale, credo sia sempre doveroso lasciare il giusto spazio all’opera, senza ornarla di termini che, come orpelli, si fermano alla pura apparenza rivelandosi d’inutile lustro. Razzennest appartiene a questa tipologia di film – in grado di coniugare le semplici immagini sullo schermo con le emozioni dello spettatore; film capaci di rendere l’esperienza cinema – o meglio l’esperienza io/film – intima, personale, unica. Dirvi cosa potete vedere in Razzennest è compito impossibile, e quindi mi scuso se in questa recensione mi limiterò a dire ciò che ci ho visto io.

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“MARTYRS” DI PASCAL LAUGIER

Il 23° TOHorror Fantastic Film Fest omaggia i 15 anni di uno degli horror più violenti e divisivi degli anni 2000, un vero e proprio punto di non ritorno per la New French Extremity. Un anniversario non casuale quello dei quindici anni, che crea uno strano cortocircuito con il tempo della narrazione del film. Diviso in tre parti, tre tappe diseguali e in una certa misura incongrue stilisticamente (un prologo ambientato quindici anni prima fatto di traumi infantili e indagini della polizia, una seconda parte da revenge movie al femminile, una terza che vive senza la protagonista e si espande fino a toccare il misticismo e la filosofia), Martyrs è una riflessione complessa sul (non)senso delle sofferenze umane e – sorprendentemente – sull’amore.

Lucie è una bambina vittima di torture che viene ritrovata in strada dalla polizia. Nell’istituto in cui viene ospitata stringe un forte legame con Anna, che la sostiene durante le visioni e i flashback che la tormentano. Quindici anni dopo, Lucie riconosce i suoi aguzzini da una foto sul giornale e si reca a casa loro per vendicarsi. Anna la segue, ma non sa che la sua compagna rimarrà uccisa e inizierà per lei un calvario nelle grinfie di un’organizzazione disposta a tutto per scoprire che cosa può vedere dell’aldilà un essere umano sospeso fra la vita e la morte.

Ciò che continua ad affascinare di Martyrs è proprio il ruotare con prepotente insistenza teorica intorno al concetto di visione, alla sua potenza e alle sue infinite possibilità e al contempo alla sua totale, nichilista insensatezza. Il film stesso è un’orribile esperienza di visione al servizio del nulla, una sevizia gratuita che si concretizza plasticamente nell’ultima scena del film, con la negazione della rivelazione, dell’immagine che Anna è riuscita a portare indietro dall’estasi del martirio, la risposta ultima al senso della vita umana. “Rimanga nel dubbio”: è la beffa e l’invito finale, la consolazione paradossale che ci resta. Una frase lapidaria che riconsidera l’immaginazione contro il reame dell’occhio-certezza, l’abbandonarsi completamente alla vita, al flusso senza sosta della sofferenza, guidati solo dal filo di Arianna della nostra umanità (la voce di Lucie che sorregge Anna lungo le stazioni della croce, la musica dolce che Laugier sovrappone alle ultime scene di tortura). L’ultima cosa che lo spettatore vede è un super8 di Anna e Lucie bambine, quindici anni prima, che giocano nel parco dell’istituto. Un piccolo frammento estrapolato dal filmato di documentazione che la polizia mostra ad Anna all’inizio del film e che, risemantizzato negli attimi estremi del film, diventa la testimonianza intima di un aldilà illusorio ma sempre negato, come il cinema stesso.

Irma Benedetto

“LES CHAMBRES ROUGES” DI PASCAL PLANTE

Si sa, il cinema è fatto di immagini e parole. Queste però non devono per forza essere in sintonia; possono anzi contraddirsi, scontrarsi, delle volte addirittura annullarsi, lasciando così lo spettatore nel pieno di pensieri sconnessi, di riflessioni incontrollate, di teorie istintive. Alla costante ricerca di uno spazio ospitale che permetta di accogliere e dipanare i propri dubbi, in questi casi il pubblico trova nell’opera filmica non uno strumento grazie al quale arrivare a una conclusione, ma al contrario un luogo dove il peregrinare alla ricerca di una soluzione non è solo concesso, ma addirittura obbligato.

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“SHE’S CONANN” DI BERTRAND MANDICO

Dopo aver conquistato una piccola ma salda platea grazie alla sua folgorante opera prima Les Garçons sauvages – presentata alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia nel 2017 –, Bertrand Mandico si trova nella scomoda posizione di dover andare alla ricerca di nuovi adepti, cercando però di non trascurare il séguito già acquisito. Accade così che il suo terzo film, esattamente come After Blue (Paradis sale, 2021), riesca a divertire gli ormai affezionati spettatori torinesi del ToHorror Fantastic Film Fest senza però raggiungere le vette toccate dal suo esordio e da alcuni suoi cortometraggi – tra tutti Boro in the Box (2011) –, e senza coinvolgere i neofiti del suo cinema. Nonostante alcune, sempre più consapevoli, intuizioni e la solita abbacinante messa in scena, She’s Conann non riesce infatti a schiodarsi dallo status di divertissement fugace e passeggero. Definizione che rischia, a meno di un cambio di rotta, di estendersi ingiustamente a macchia d’olio sulla totalità dell’opera del regista transalpino.

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“HOME INVASION” DI GRAEME ARNFIELD

A partire da una serie di incubi ricorrenti in cui la propria dimora viene invasa, alcuni personaggi della storia recente perfezionano i propri dispositivi di sicurezza per accertarsi che nessuno entri in casa senza permesso. Tutto sembra ridursi a questo: poter dormire sonni tranquilli. Invece, la tecnologia che avrebbe dovuto tenerli al sicuro li soggioga e li tiene svegli, nell’ansia perenne che qualcuno possa improvvisamente rivelarsi davanti allo spioncino. Una perenne angoscia verso l’esterno che sfocia nel voyeurismo più estremo.


In anteprima nazionale al TOHorror Film Fest, Home invasion di Graeme Arnfield indaga le correlazioni tra tecnologia e paranoia ossessiva attraverso la storia del campanello che da dispositivo di comunicazione con l’esterno si trasforma in strumento di controllo, confine tra se stessi e gli altri, custode di una soglia terrificante, guardiano silenzioso e onnipresente dalle reminiscenze orwelliane. Ultimo progresso tecnologico, Ring è un videocitofono che invia notifiche al proprietario in tempo reale, consente di parlare con i visitatori e di aprire il portone anche a distanza. In realtà, Ring è un sistema altamente codificato in grado di raccogliere costantemente dati sulle abitazioni nei quali viene installato: la tecnologia dei campanelli diventa allora un’attività di controllo profondamente compenetrata, direttamente connessa al cloud e condivisibile sui propri account, facilmente violabile anche da polizia e tribunali in nome della “pubblica sicurezza”.

“Ring non è un’azienda di campanelli: è un’azienda di dati che vende campanelli”.

Continuamente invaso da didascalie esplicative con titoli sensazionalistici che ben ricalcano gli effetti della nevrosi a cui il controllo tecnologico pare averci condannato, Home invasion mischia filmati di sicurezza domestici, clip estratte da internet e immagini d’archivio, ma affonda a piene mani anche nella tradizione cinematografica in cui l’home invasion è un tema ricorrente fin da Griffith (Lonely Villa, 1909), mettendo in comunicazione l’attuale cultura del terrore all’audiovisivo che così fortemente la alimenta. Ogni immagine rimane vincolata e costretta all’interno di uno spioncino grazie al fish-eye con cui è costruito tutto il film, espediente estetico che costringe gli spettatori a prendere coscienza della loro complicità verso il sistema della sorveglianza. Come gli abitanti delle case americane selezionate da Arnfield, anche noi osserviamo il mondo esterno al sicuro nelle nostre poltrone, mentre il videocitofono registra animali incuriositi fuori dalla porta, corrieri negligenti che lanciano i pacchi in consegna e inquietanti performance davanti (e per) la camera.

Della psicosi collettiva che attanaglia l’intera popolazione non è esente neanche lo stesso regista Graeme Arnfield che ne è, anzi, la prima vittima: Home invasion è stato infatti diretto, sceneggiato e montato senza uscire di casa. Interamente “made in bed”, dimostra fino a che punto può arrivare l’alienazione privata.

Sara Longo