“Waiting for August” di Teodora Ana Mihai

La storia di chi rimane

Bacau–Torino: una distanza che tiene lontano sette figli dalla loro mamma, che ha un lavoro come badante in Piemonte e non tornerà in Romania prima dell’estate successiva. Georgiana è la figlia più grande che si occupa delle faccende domestiche e dei fratelli più piccoli. Le giornate sono come quelle di qualsiasi bambino della loro età: vengono svegliati, vengono vestiti, viene fatta trovare pronta la cena. Tutto questo però è opera di una quindicenne costretta a crescere troppo in fretta. Puntualmente arriva la telefonata dalla mamma che vuole sentire tutte le sue creature dalla più piccola alla più grande, ma non può stare molto al cellulare perché incombono le faccende della famiglia italiana.Cerca, così, di rimediare alla sua assenza mandando il fatidico pacco dall’Italia e i ragazzi si chiedono se la mamma si sarà mai ricordata di prendere il giocattolo tanto desiderato. Ma lo stipendio non è ancora arrivato e quindi nel pacco ci sono solo caramelle e merendine e un regalo per i 15 anni di Georgiana. “Il prossimo pacco sarà solo per il vostro compleanno, questa volta tocca a Georgiana” dice la mamma per consolare gli altri. Che cada un dentino, che si spengano le candeline, che si dica qualcosa al telefono, il desiderio è sempre lo stesso: “che la mamma torni presto”.

Waiting For August 2

Anche se le riprese iniziali sono innevate e gelide, l’aria che si respira nella casa dei bambini è positiva e calorosa. Sorprendente è la figura di Georgiana che entra subito nel ruolo di mamma di famiglia, nonostante dica con ironia: “Io non farò mai dei figli”. Riesce a ritagliare dei momenti per sé, ad esempio per guardare in tv la telenovela argentina insieme agli amici, anche se puntualmente viene interrotta dal pianto o dai capricci dei più piccoli. Allo spettatore sembra di vedere una donna matura alle prese con i figli, ma comprende che si tratta di un’adolescente in preda alle preoccupazioni del primo appuntamento quando cerca il fondotinta e le forcine.

Teodora Ana Mihai ha girato il documentario insieme a quattro operatori belgi che sono entrati in punta di piedi nell’appartamento del condominio popolare nella periferia di Bacau. Nessuno sa il rumeno se non la regista, che bisbiglia ai cameramen spiegando le situazioni. In alcuni momenti ha la meglio il linguaggio internazionale dei giochi e dei sentimenti, così le lingue non sono più un ostacolo. Le riprese sono state effettuate in cinque diversi momenti nell’arco di nove mesi, ottenendo più di centocinquanta ore di girato. La regista avrebbe potuto filmare molto di più, scavare ancora più a fondo, ma grandissimo è stato il rispetto della privacy nei confronti di questa giovane famiglia.

La domanda sorge spontanea dopo la proiezione: “La figura maschile dov’è?” Infatti chi comanda è la donna, mentre la figura di Ionut, ragazzo diciassettenne, è inconsistente poiché trascorre giornate intere davanti ai videogames; il padre, dal canto suo, si è volatilizzato dopo un brutto divorzio, non condivide più nessun momento con la famiglia e non viene neanche citato. Alla regista non interessa la vita di quest’uomo: la sua assenza dimostra quanto sono soli questi bambini.

Teodora Ana Mihai, presente in sala, ha dichiarato dopo la proiezione del film: “Sono nata in Romania durante il periodo comunista e quando avevo sette anni e mezzo i miei genitori sono andati via e hanno trovato asilo politico in Belgio. Per assicurare ai servizi segreti che sarebbero tornati in patria mi hanno lasciato in Romania.” Nonostante siano tornati dopo solo un anno, questa esperienza ha segnato la regista, la quale con questo lavoro vuole dare voce non solo a chi emigra dal paese di origine, ma a chi, come lei, è stato costretto a rimanere nel paese natale subendone le conseguenze.

 

 

 

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