Tutti gli articoli di Marta Faggi

“VINCENT DOIT MOURIR” DI STÈPHAN CASTANG

La violenza scaturisce dagli occhi di chi guarda: a Vincent (Karim Leklou), per essere aggredito, basta incrociare lo sguardo di qualcuno. Questa – banale – azione quotidiana è foriera, in Vincent doit mourir, di una crudeltà senza fine, destinata a protrarsi di giorno in giorno, ogni volta con modalità inedite. La violenza si diffonde, in modo quasi epidemico, tramite attacchi scomposti e impacciati di civili totalmente inadatti al combattimento. Si innesca così una follia che ha una venatura grottesca: queste persone vogliono disperatamente uccidere Vincent ma, al tempo stesso, ne sono incapaci.

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“KALAK” DI ISABELLA EKLÖF

La Groenlandia di Kalak è sterminata: le profonde insenature dei fiordi sono sormontate da ripide e scoscese pareti montuose, con le cime innevate. Kulusuk, piccolo villaggio della Groenlandia orientale, è composto da poche case isolate, dai tetti spioventi e dai colori sgargianti. È a Kulusuk che Jan (Emil Johnsen) si rifugia, con moglie e figli, dopo che la vita nella capitale, Nuuk, è diventata insostenibile. Non è la prima volta che Jan fugge da qualcosa: prima di vivere in Groenlandia, viveva in Danimarca, con il padre. Scappa da se stesso e dal proprio passato, alla spasmodica ricerca di un senso di appartenenza, di una collettività.

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“HUESERA” DI MICHELLE GARZA CERVERA

“Huesera”, in spagnolo, indica la persona esperta nel trattamento delle malattie delle ossa e delle articolazioni. Il termine, però, designa anche La Donna delle Ossa, figura della mitologia messicana il cui compito è di radunare le ossa dei defunti, simbolo della forza vitale che non si consuma, e di pregare finché la carne non torna ad abitare quei resti, ricreando la vita da parti disgiunte. Le ossa di Valeria (Natalia Solián), in Huesera, scricchiolano continuamente, perché farsi scrocchiare le dita delle mani e le giunture della schiena è il modo con cui la protagonista prova (e non sempre riesce) a drenare fuori dal corpo il suo malessere, le sue frustrazioni, le sue inettitudini. A tormentare Valeria è la consapevolezza che sarà presto madre: una maternità apparentemente ricercata, ma intimamente non voluta.

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“PLAN 75” DI CHIE HAYAKAWA

Michi (Chieko Baishô) rievoca al telefono i ricordi del proprio passato: racconta la propria vita con malinconia, grata di avere qualcuno che la ascolti. Nella sua cucina non si sente altro se non la sua stessa voce. Dall’altro capo del telefono Yoko (Yumi Kawai) – molto più giovane di lei – è in silenzio. Vorrebbe concentrarsi sul racconto dell’anziana signora, ma la sua testa è altrove. A interrompere il flusso di parole di Michi è un allarme: il tempo a sua disposizione è scaduto. Yoko, trattenendo le lacrime, inizia a illustrarle cosa succederà il giorno seguente e le ripete, quasi come se fosse una supplica, che non è obbligata a farlo. Michi risponde, con tono sommesso: «Sayonara».

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“FALCON LAKE” DI CHARLOTTE LE BON

Sono sulla riva del loro lago, quando Chloé (Sara Montpetit) chiede a Bastien (Joseph Engel) quale sia la sua più grande paura: il ragazzo sorride, scrolla le spalle e risponde che è masturbarsi di fronte a mamma e papà. Quando Chloé si confessa a sua volta, sta piangendo: «Credo che la mia più grande paura sia di sentirmi sola tutta la vita».

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Charlotte Le Bon, al suo esordio alla regia, scandaglia l’adolescenza mostrandola durante una parentesi estiva al lago. Per farlo, attinge a piene mani dalla graphic novel Una sorella (Bao Publishing, 2018) del francese Bastien Vivès, in cui vengono trattate le ambivalenze del desiderio giovanile al suo nascere. Falcon Lake si concentra sull’attrazione reciproca tra i due protagonisti. Lei, Chloé, è una sedicenne che si sforza di comportarsi da adulta anche quando vorrebbe solo darsi il tempo di cui ha bisogno. È forse proprio questo che la spinge a ricercare Bastien, di due anni più giovane di lei, apertamente inesperto e soggiogato dal fascino della ostentata e costruita sicurezza di lei. I due ragazzi sono immortalati nella loro più pura ingenuità, mentre scoprono, impacciati, uno il corpo dell’altra. Sullo sfondo del loro rapporto ci sono gli adulti veri e propri, i genitori. In Una sorella, Vivès non disegna mai i volti, perché quella non è la loro storia. Le Bon ripropone questa scelta nel suo linguaggio, quello cinematografico: i genitori sono relegati fuori campo, i visi non si vedono e rimangono soltanto le voci.

Nel finale, Le Bon, anche autrice della sceneggiatura, si discosta dall’opera su cui è basato il suo lungometraggio. La conclusione che ha scelto per il protagonista maschile è l’emblema dell’adolescenza in sé, rappresentata come un periodo della vita al confine tra la vita e la morte. «Ci sono fantasmi che non sanno di essere morti» e sono questi fantasmi, con i loro desideri, a popolare la giovinezza. I protagonisti vivono le loro esperienze in maniera assoluta e fatalista, senza l’elaborazione emotiva tipica di chi l’adolescenza l’ha già superata e ne è uscito indenne.

Falcon Lake non si allontana molto dai cliché narrativi del coming of age. Nonostante questo limite, la regista crea uno spazio di rigorosa rappresentazione in cui si alternano inquietudini e scoperte dell’adolescenza, dentro le quali lo spettatore può ritrovare se stesso e il proprio vissuto.

Marta Faggi