Che belle immagini nitide, questo Temporada, e che colori sani, finalmente sciolti dai vincoli estetici e luministici che tanto cinema imbrigliano. Carioca, sì, nell’animo, con una vitalità e una leggerezza che fin dalle prime immagini si sente e si comprende, mentre si sale, sotto il sole, per i viali sui colli di Contagem, metropoli meridionale di quell’enorme stato contraddittorio che è oggi il Brasile.
Siamo a Contagem, appunto, in una microzona territoriale precisamente delimitata dalle cartine affisse nel minuscolo vano della squadra locale del Dipartimento di Salute Pubblica, che è il team protagonista della sobria trama del film. D’altronde, che lavoro facciano i pochi interpreti lo si capisce dopo un bel po’, ché non è rilevante ai fini dell’affabulazione emotiva che André Novais Oliveira – regista trentaquattrenne di Temporada – vuole portare avanti; l’inquadramento lavorativo dei personaggi è semmai rivelatorio di quello sguardo ecologico (nel senso etimologico, e non banalmente politico che il termine ha acquisito in questi tempi d’ipocrite battaglie ambientali) che Oliveira getta affettuosamente sul suo Brasile. Uno sguardo che riappare qua e là, come nella meravigliosa scena voyeuristica sull’alto tetto della città.
Quel che conta veramente è il cuore di Juliana, nuovo membro del team di cui sopra, fresca di trasferimento da una vicina città e in attesa dell’arrivo posticipato del marito. Juliana, o meglio Grace Passô, ovvero una delle più grandi attrici teatrali brasiliane, alla sua seconda apparizione sullo schermo – e che apparizione! Qualunque premio come miglior attrice protagonista non assegnatole sarebbe un’ingiustizia, un torto nei confronti di un’interpretazione magistrale.
Peraltro è lei che svela l’illusorietà di quella solarità carioca che apre il film: Juliana, cioè, smentisce quell’alternanza monolitica fra il giorno e la notte, tra luce e ombra che scandisce il ritmo del film e l’apparenza della vita vera; in lei convivono, in tacita compresenza, i chiaroscuri che – ahinoi – permeano, latenti o meno, l’essenza stessa della realtà. Pensiamo alla scena della rivelazione di Juliana alla cugina: in primo piano il buio della stanza contigua alla cucina e sullo sfondo le due donne che chiacchierano illuminate blandamente: per quanto loquace e solare, l’animo di Juliana (e l’anima del Brasile – e l’animo del mondo) nasconde l’oscuro moto dei ricordi (o delle passioni). Il contrasto emerge, tra notte e giorno, ma di luci più in generale: si pensi alla scena forse un poco accademica nel suo espressionismo dichiarato dove la luce del cellulare, all’apertura di una “scatola di ricordi”, getta l’ombra lunga della Juliana profonda contro la parete; il contrasto che ne viene fuori rivela l’intero motore conflittuale del film. Ed è lo stesso discorso che porta avanti il canto dolcemente mesto del clarinetto che apre e chiude la vicenda.
Dice Oliveira in conferenza stampa che lo sguardo della macchina, come già accennato, non vuol esser né politico, né antropologico, ma d’affetto verso quei luoghi (le favelas, in primo luogo) troppo spesso stereotipati e vuoti. Ci si chiede però se anche l’utilizzo dei corpi grassi fino all’obesità, e soprattutto delle loro unioni amorose, dai baci viscidi e rumorosi sonoramente espressi, non abbia almeno un afflato critico contro il noiosissimo rigetto dell’industria e del pubblico nei loro confronti. Ad ogni modo, proprio a proposito della scena citata, vale la pena ricordare un’altra dote di Temporada di Oliveira. Siamo nel corridoio di casa, camera fissa e solito long take a rappresentare la durata reale della vita ancorché ripresa: Juliana e il partner si baciano; la luce che filtra dalla porta e si riversa sulla parete è sghemba, obliqua e ricrea nelle linee compositive del quadro quello stesso conflitto che vive nel cuore di Juliana. Così come le diagonali di luce nell’ombra, anche l’architettura scenografica ricostruisce e amplifica con le sue linee precise la conflittualità della protagonista. E sarà forse un vezzo creativo, didascalico, nemmeno troppo coerente con il resto della narrazione, ma rimane piacevole, interessante e mai eccessivo.
E quindi insomma, Temporada è un film minuto, con qualche approssimazione dialogica, qualche vezzo accademico, ma è anche un film dignitoso e delicato, leggero. Della leggerezza di cui parlava Calvino nelle sue Lezioni americane, quella dote che hanno alcuni autori nel parlare del mondo senza appesantirlo troppo, soprattutto quando trattano di temi colti, o forti. In Temporada si respira un’aria famigliare, dimessa, morigerata. E allora, nel cinema d’oggi che, per forme e contenuti, è pomposo fino all’irrespirabilità, questo di Oliveira è un film che cura, e lo fa bene.