Una carica di energia dal fascino ultraterreno che scende fluttuante su una cupa brughiera dà inizio a Voidcaller, l’ultimo film di Nils Alatalo. Un film girato in economia, da cui il giovane regista svedese ha saputo trarre forza attraverso una poetica punk seducente e un approccio minimalista, capace di sfruttare i limiti tecnici a proprio vantaggio.
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“ELSE” DI THIBAULT EMIN
Anx (Matthieu Sampeur), timido e introverso, e Cassandra (Edith Proust), esuberante e festaiola, si svegliano dopo un occasionale amplesso nel letto di lui. Inizialmente una semplice storia d’amore tra le stanza di un appartamento, Else di Thibault Emin, presentato in concorso al 24° TOHorror, diventa progressivamente una storia di sopravvivenza ambientata in quelle stesse mura che prima avevano custodito il crescente affetto tra i due. Anx e Cassandra infatti devono difendersi da una misteriosa infezione che trasforma gli esseri viventi in creature mostruose fuse con lo spazio che li circonda. Chiusi in casa a causa del lockdown nazionale, i due approfondiscono la reciproca conoscenza, riparandosi intanto dalle minacce che incombono da fuori e dentro l’appartamento.
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Fréwaka, il secondo lungometraggio della regista e scrittrice irlandese Aislinn Clarke, è un coraggioso tentativo di esplorare i lati più oscuri dell’uomo contemporaneo, attanagliato da traumi che emergono dall’incontro con un passato disturbante.
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Tra gli alberi in un bosco di un’anonima località nordamericana, una creatura non-morta si risveglia dal sottosuolo dove era stata sepolta per vendicarsi di un sanguinario torto subito nel passato. Questa è la premessa di In a Violent Nature di Chris Nash, presentato in concorso alla 24° edizione del TOHorror, che, per quanto sia un tipico slasher movie, con evidente richiamo a Venerdì 13 (1980), si delinea progressivamente come un’interessante disamina sul rapporto preda e cacciatore: non tanto quindi una decostruzione post-moderna del genere, a cui una certa produzione horror contemporanea come la trilogia X di Ti West ci ha abituati, quanto un approfondimento di ciò che ne costituisce la sostanza, quella natura violenta di cui fa appunto riferimento il titolo del film.
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Parlare di Razzennest non è certo compito semplice. Quando si deve scrivere dei film d’autore, quei film che impongono il maiuscolo all’intero vocabolo e non soltanto alla lettera iniziale, credo sia sempre doveroso lasciare il giusto spazio all’opera, senza ornarla di termini che, come orpelli, si fermano alla pura apparenza rivelandosi d’inutile lustro. Razzennest appartiene a questa tipologia di film – in grado di coniugare le semplici immagini sullo schermo con le emozioni dello spettatore; film capaci di rendere l’esperienza cinema – o meglio l’esperienza io/film – intima, personale, unica. Dirvi cosa potete vedere in Razzennest è compito impossibile, e quindi mi scuso se in questa recensione mi limiterò a dire ciò che ci ho visto io.
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Il 23° TOHorror Fantastic Film Fest omaggia i 15 anni di uno degli horror più violenti e divisivi degli anni 2000, un vero e proprio punto di non ritorno per la New French Extremity. Un anniversario non casuale quello dei quindici anni, che crea uno strano cortocircuito con il tempo della narrazione del film. Diviso in tre parti, tre tappe diseguali e in una certa misura incongrue stilisticamente (un prologo ambientato quindici anni prima fatto di traumi infantili e indagini della polizia, una seconda parte da revenge movie al femminile, una terza che vive senza la protagonista e si espande fino a toccare il misticismo e la filosofia), Martyrs è una riflessione complessa sul (non)senso delle sofferenze umane e – sorprendentemente – sull’amore.
Lucie è una bambina vittima di torture che viene ritrovata in strada dalla polizia. Nell’istituto in cui viene ospitata stringe un forte legame con Anna, che la sostiene durante le visioni e i flashback che la tormentano. Quindici anni dopo, Lucie riconosce i suoi aguzzini da una foto sul giornale e si reca a casa loro per vendicarsi. Anna la segue, ma non sa che la sua compagna rimarrà uccisa e inizierà per lei un calvario nelle grinfie di un’organizzazione disposta a tutto per scoprire che cosa può vedere dell’aldilà un essere umano sospeso fra la vita e la morte.
Ciò che continua ad affascinare di Martyrs è proprio il ruotare con prepotente insistenza teorica intorno al concetto di visione, alla sua potenza e alle sue infinite possibilità e al contempo alla sua totale, nichilista insensatezza. Il film stesso è un’orribile esperienza di visione al servizio del nulla, una sevizia gratuita che si concretizza plasticamente nell’ultima scena del film, con la negazione della rivelazione, dell’immagine che Anna è riuscita a portare indietro dall’estasi del martirio, la risposta ultima al senso della vita umana. “Rimanga nel dubbio”: è la beffa e l’invito finale, la consolazione paradossale che ci resta. Una frase lapidaria che riconsidera l’immaginazione contro il reame dell’occhio-certezza, l’abbandonarsi completamente alla vita, al flusso senza sosta della sofferenza, guidati solo dal filo di Arianna della nostra umanità (la voce di Lucie che sorregge Anna lungo le stazioni della croce, la musica dolce che Laugier sovrappone alle ultime scene di tortura). L’ultima cosa che lo spettatore vede è un super8 di Anna e Lucie bambine, quindici anni prima, che giocano nel parco dell’istituto. Un piccolo frammento estrapolato dal filmato di documentazione che la polizia mostra ad Anna all’inizio del film e che, risemantizzato negli attimi estremi del film, diventa la testimonianza intima di un aldilà illusorio ma sempre negato, come il cinema stesso.
Irma Benedetto
“LES CHAMBRES ROUGES” DI PASCAL PLANTE
Si sa, il cinema è fatto di immagini e parole. Queste però non devono per forza essere in sintonia; possono anzi contraddirsi, scontrarsi, delle volte addirittura annullarsi, lasciando così lo spettatore nel pieno di pensieri sconnessi, di riflessioni incontrollate, di teorie istintive. Alla costante ricerca di uno spazio ospitale che permetta di accogliere e dipanare i propri dubbi, in questi casi il pubblico trova nell’opera filmica non uno strumento grazie al quale arrivare a una conclusione, ma al contrario un luogo dove il peregrinare alla ricerca di una soluzione non è solo concesso, ma addirittura obbligato.
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Dopo aver conquistato una piccola ma salda platea grazie alla sua folgorante opera prima Les Garçons sauvages – presentata alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia nel 2017 –, Bertrand Mandico si trova nella scomoda posizione di dover andare alla ricerca di nuovi adepti, cercando però di non trascurare il séguito già acquisito. Accade così che il suo terzo film, esattamente come After Blue (Paradis sale, 2021), riesca a divertire gli ormai affezionati spettatori torinesi del ToHorror Fantastic Film Fest senza però raggiungere le vette toccate dal suo esordio e da alcuni suoi cortometraggi – tra tutti Boro in the Box (2011) –, e senza coinvolgere i neofiti del suo cinema. Nonostante alcune, sempre più consapevoli, intuizioni e la solita abbacinante messa in scena, She’s Conann non riesce infatti a schiodarsi dallo status di divertissement fugace e passeggero. Definizione che rischia, a meno di un cambio di rotta, di estendersi ingiustamente a macchia d’olio sulla totalità dell’opera del regista transalpino.
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A partire da una serie di incubi ricorrenti in cui la propria dimora viene invasa, alcuni personaggi della storia recente perfezionano i propri dispositivi di sicurezza per accertarsi che nessuno entri in casa senza permesso. Tutto sembra ridursi a questo: poter dormire sonni tranquilli. Invece, la tecnologia che avrebbe dovuto tenerli al sicuro li soggioga e li tiene svegli, nell’ansia perenne che qualcuno possa improvvisamente rivelarsi davanti allo spioncino. Una perenne angoscia verso l’esterno che sfocia nel voyeurismo più estremo.
In anteprima nazionale al TOHorror Film Fest, Home invasion di Graeme Arnfield indaga le correlazioni tra tecnologia e paranoia ossessiva attraverso la storia del campanello che da dispositivo di comunicazione con l’esterno si trasforma in strumento di controllo, confine tra se stessi e gli altri, custode di una soglia terrificante, guardiano silenzioso e onnipresente dalle reminiscenze orwelliane. Ultimo progresso tecnologico, Ring è un videocitofono che invia notifiche al proprietario in tempo reale, consente di parlare con i visitatori e di aprire il portone anche a distanza. In realtà, Ring è un sistema altamente codificato in grado di raccogliere costantemente dati sulle abitazioni nei quali viene installato: la tecnologia dei campanelli diventa allora un’attività di controllo profondamente compenetrata, direttamente connessa al cloud e condivisibile sui propri account, facilmente violabile anche da polizia e tribunali in nome della “pubblica sicurezza”.
“Ring non è un’azienda di campanelli: è un’azienda di dati che vende campanelli”.
Continuamente invaso da didascalie esplicative con titoli sensazionalistici che ben ricalcano gli effetti della nevrosi a cui il controllo tecnologico pare averci condannato, Home invasion mischia filmati di sicurezza domestici, clip estratte da internet e immagini d’archivio, ma affonda a piene mani anche nella tradizione cinematografica in cui l’home invasion è un tema ricorrente fin da Griffith (Lonely Villa, 1909), mettendo in comunicazione l’attuale cultura del terrore all’audiovisivo che così fortemente la alimenta. Ogni immagine rimane vincolata e costretta all’interno di uno spioncino grazie al fish-eye con cui è costruito tutto il film, espediente estetico che costringe gli spettatori a prendere coscienza della loro complicità verso il sistema della sorveglianza. Come gli abitanti delle case americane selezionate da Arnfield, anche noi osserviamo il mondo esterno al sicuro nelle nostre poltrone, mentre il videocitofono registra animali incuriositi fuori dalla porta, corrieri negligenti che lanciano i pacchi in consegna e inquietanti performance davanti (e per) la camera.
Della psicosi collettiva che attanaglia l’intera popolazione non è esente neanche lo stesso regista Graeme Arnfield che ne è, anzi, la prima vittima: Home invasion è stato infatti diretto, sceneggiato e montato senza uscire di casa. Interamente “made in bed”, dimostra fino a che punto può arrivare l’alienazione privata.
Sara Longo
“A WOUNDED FAWN” DI TREVIS STEVENS
Dopo una lunga carriera da produttore (Jodorowsky’s Dune, A Horrible Way To Die e tanti altri), con A Wounded Fawn, presentato nella sezione competitiva della ventiduesima edizione del TOHORROR Fantastic Film Fest, Travis Stevens firma la sua terza regia. L’arduo tentativo di amalgamare suggestioni disparate, se non addirittura contraddittorie, si concretizza in un’opera prodigiosamente equilibrata e omogenea, già vista, eppure originale. Un esemplare film di genere.
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Da Orwell a Dick, da Brazil (Gilliam, 1985) a Flatlandia (Abbott, 1884), il lungometraggio d’esordio di Diego Felipe Guzmán, presentato in concorso alla ventiduesima edizione del ToHorror Film Fest, si rifà alle tradizioni fantascientifiche più tetre e alle tele cubiste più vivaci. Narrando di un futuro distopico ma non integralmente irrealistico, la stravagante animazione del film si rivela quale bizzarra ed eccentrica allegoria di un mondo odierno che saremo, forse, costretti ad abbandonare.
Continua la lettura di “LA OTRA FORMA” DI DIEGO FELIPE GUZMÁN“MAD HEIDI” DI JOHANNES HARTMANN E SANDRO KLOPFSTEIN
Nella 22° edizione del ToHorror Film Festival, si sta notando grande interesse per la rivisitazione dark di grandi favole per bambini: dalle fascinazioni per il Mago di Oz che ha contaminato la filmografia di David Lynch – cui saranno dedicati diversi omaggi nella giornata di domenica 23 ottobre – fino ai Freakshorts in cui si arriva addirittura a uccidere il povero Babbo Natale. Se la Disney ha voluto il più delle volte edulcorare i gotici racconti dei fratelli Grimm salvando le principesse dal triste destino a cui le favole letterarie le vincolavano, si sta riscoprendo in questi ultimi anni “il lato oscuro” delle storie per l’infanzia, da Hansel e Gretel – Cacciatori di streghe (Wirkola, 2012) a Cappuccetto Rosso Sangue (Hardwicke, 2011) fino alla prossima uscita di Winnie the Pooh: Blood and Honey (Waterfield, 2022). Insomma, al pubblico piace vedere i sogni trasformarsi in incubi, cercando il brivido da vivere insieme nella sala oscura cinematografica. E infatti, Mad Heidi è stato prodotto interamente tramite crowdfunding dagli appassionati del genere (o meglio, dei generi, tra favolistico, splatter ed exploitation) e ha raccolto oltre 2 milioni di franchi svizzeri per la sua realizzazione.
Il primo film della Swissploitation si presenta totalmente libero da qualsiasi controllo produttivo e creativo, portando sullo schermo con fierezza una rivisitazione gore dell’icona svizzera dell’innocenza. Presentato in anteprima nazionale in una sala da sold-out al ToHorror22, Mad Heidi sguazza nell’epica del trash in un amalgama citazionista e spudorato. Il film rinnega fin dalle prime inquadrature l’emblema di una Svizzera rurale, proponendo la rivisitazione distopica di un Paese ormai industrializzato che vive sotto l’assoluto controllo di un magnate del formaggio che combatte la concorrenza dei contrabbandieri-pastori ed elimina gli intolleranti al lattosio con torture alla fonduta.
A fare scuola, ci sono i grandi classici da grindhouse: il film si destreggia tra omaggi a Rodriguez e addestramenti alla Kill Bill, ma non si lascia scappare neanche citazioni da Apocalypse Now, riferimenti a Il Gladiatore”, né i sottogeneri dedicati alla prigionia femminile e le gag metaculturali, in un minestrone riscaldato che esalta i propri cliché per restituire al pubblico un B-movie che ha il merito di saper sfruttare le potenzialità del proprio territorio, convertendo l’exploitation americana in un prodotto made in Switzerland che ruoti attorno a riferimenti culturali autoctoni. Non ci sono più caprette che fanno ciao, né monti che sorridono felici: la Heidi di Johannes Hartmann e Sandro Klopfstein è una sanguinaria vichinga tirolese che cerca vendetta per le sofferenze dei suoi cari, una Inglourious Basterd simbolo della lotta antifascista. A metà strada tra il grottesco e la parodia, Heidi non risparmia colpi a nessuno; perché quando giunge l’ora della vendetta, in Svizzera – si sa – arriva puntuale.
Sara Longo
“RAQUEL 1:1” di MARIANA BASTOS
“Mite come la pecorella”, “La mitezza di Dio”, “Pecora di Dio”. Raquel (Valentina Herszage), protagonista dell’omonimo film di Mariana Bastos, presentato alla ventiduesima edizione del TOHORROR Fantastic Film Fest, non ha alcuna intenzione di corrispondere al significato del suo stesso nome. Al contrario, attraverso una rilettura al limite della blasfemia, intende sovvertire il ruolo di tutte le donne cristiane finendo per scontrarsi contro la bigotta cittadina dove si è trasferita da poco insieme al padre.
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Nella seconda giornata della ventiduesima edizione del TOHORROR Fantastic Film Fest, la sezione Freakshow, dedicata ad opere ad alto gradiente di eccentricità e splatter, viene inaugurata da Tiny Cinema.
Il lungometraggio a episodi di Tyler Cornack non risponde alle aspettative di un pubblico alla spasmodica ricerca di sorprese e stranezze di ogni tipo a causa di una consistenza narrativa traballante.
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Il cinema coreano sta vivendo un momento particolarmente felice, culminato con la Palma d’oro a Parasite di Bong Joon-Ho; gli zombie sono sempre più popolari negli horror televisivi e cinematografici, invadendo il mercato con svariate produzioni ogni anno. Lee Min-jae, al suo primo lungometraggio, si dimostra subito un autore consapevole dell’ambiente in cui si muove, riuscendo a cavalcare le tendenze con il suo zombie movie. The Odd Family – Zombie for Sale, è un film ricco di richiami e citazioni ad altre opere dedicate ai non-morti, sia nazionali, come Train to Busan di YeonSang-ho, sia internazionali, come Fido o Zombieland.
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Le Furie che ispirano il titolo di questo film sono, nella mitologia, divinità che puniscono chi viola l’ordine morale e vendicano i delitti di sangue.
A partire da questo richiamo, Tony D’Aquino ha costruito un perverso gioco di oppressione e vendetta, che prende forma davanti agli occhi dello spettatore attraverso continui contrasti visivi e uditivi.
“KUWARESMA – THE ENTITY” di Erik Matti
Luis sta camminando lungo i corridoi del college in cui studia, quando trova davanti a sé la sorella che gli intima di tornare a casa e di non lasciarla mai più sola. Pochi istanti dopo viene chiamato al telefono dal padre, che gli comunica la notizia della morte della ragazza. Continua la lettura di “KUWARESMA – THE ENTITY” di Erik Matti
“all the gods in the sky” di Quarxx
Anteprima italiana per il ToHorror film festival, All The Gods in The Sky (Tous les dieux du ciel) è il quarto lungometraggio di Quarxx: una storia oscura in cui il senso di colpa soffoca l’amore, che sarebbe riduttivo ascrivere al filone della New France Extremity. Benché lo scopo del regista sia quello di scioccare lo spettatore con immagini violente e scabrose, Quarxx riesce nell’intento di fondere più generi: dramma famigliare, fantascienza e body modification si mescolano in un’opera che rifugge da etichette troppo semplicistiche.
Simon (Jean Luc-Cochard) è un umile operaio della campagna francese che soffre di crisi psicotiche. La sua vita si alterna tra l’alienante lavoro in fabbrica e le cure prestate alla sorella Estelle (l’incredibile modella Melanie Gaydos), affetta da una forte disabilità motoria in seguito a un incidente di gioco di cui lo stesso Simon sembra attribuirsi la colpa. La salvezza per i due fratelli, intrappolati nelle rispettive prigioni corporee, sembra arrivare da entità spaziali con cui entrano in contatto.
L’ispirazione per il regista è la vera storia di un uomo che, non volendosi separare dalla sorella, ha dormito accanto al suo corpo per tre settimane: è chiaro quindi come l’amore fraterno sia il fulcro e la chiave di lettura di tutta l’opera. L’horror diventa lo strumento attraverso cui Quarxx indaga questo rapporto, lasciando lo spettatore disorientato, a cavallo tra realtà e allucinazione in un mondo ricco di misteri e segreti.
Proprio la creazione di questo mondo è l’elemento più interessante del film. La capacità di gestione dei personaggi secondari all’interno della storia è ciò che distingue Tous les dieux du ciel dagli altri film del genere. Personaggi generalmente trattati con superficialità sono qui presentati con estrema attenzione e inusuale profondità, al punto che molti di loro sono introdotti da lunghe sequenze di cui sono protagonisti, e in cui vengono presentate le loro misteriose vicende personali. Storie slegate dall’intreccio principale, nate dall’amore che il regista prova nei confronti di tutti i suoi personaggi. Nessuna di queste scene rallenta il ritmo del racconto ma, anzi, incuriosisce lo spettatore, donando spessore al mondo immaginario del regista; usciti dalla sala vi troverete riflettere sulla natura del rapporto tra Simon ed Estelle, ma anche a immaginare quanti film si nascondono tra le pieghe di tutte le side stories.
“IT COMES” DI TETSUYA NAKASHIMA
Tremate, tremate, il ToHorror Film Festival è tornato con la sua diciannovesima edizione e un film d’apertura firmato da Tetsuya Nakashima, intitolato It Comes, in concorso nella categoria lungometraggi. It Comes è un japanese horror che racconta di un viaggio infernale tra le menzogne di un padre e i segreti tormentati di una madre, entrambi manipolati da una presenza che credevano amica, impegnati nella lotta contro una sinistra e infernale presenza che vuole prendere possesso della loro figlioletta di due anni, la piccola Chisa.
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