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“EIGHT POSTCARDS FROM UTOPIA” BY RADU JUDE E CHRISTIAN FERENCZ-FLATZ

Article by Romeo Gjokaj

Translation by Martina Marino

Radu Jude and Christian Ferencz-Flatz’s latest work is deeply rooted in the socio-political context of post-revolution Romania, narrating the last thirty years of the country’s history through the commercials that accompanied its people towards democracy. It is an experimental found-footage documentary, divided into eight chapters displaying dozens of commercials played back-to-back: an overwhelming and ever-changing flow of ideals, dreams and hopes. Thus, we find ourselves reliving a fragment of the utopia promised by the end of socialism, yet an utopia that, however, is jarring and full of contradictions.

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“EIGHT POSTCARDS FROM UTOPIA” DI RADU JUDE E CHRISTIAN FERENCZ-FLATZ

L’ultimo lavoro di Radu Jude e Christian Ferencz-Flatz affonda le sue radici nel contesto socio-politico della Romania post-rivoluzione, raccontando gli ultimi trent’anni della vita del Paese attraverso le pubblicità che hanno accompagnato il popolo rumeno verso la democrazia. Un documentario sperimentale di montaggio, suddiviso in otto capitoli che presentano decine di spot riprodotti uno dietro l’altro: un flusso travolgente di ideali, sogni e speranze in continua evoluzione. Ci troviamo così a rivivere un pezzo dell’utopia che la fine del socialismo prometteva, un’utopia però stridente e piena di contraddizioni.

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“DO NOT EXPECT TOO MUCH FROM THE END OF THE WORLD” DI RADU JUDE

Tra le molte strade che percorrono il territorio rumeno, una in particolare gode di una certa popolarità: è la Transfăgărășan, anche nota come “la follia di Ceaușescu”, 60 miglia che si snodano attraverso le vette più scoscese della Romania. Il sinistro appellativo con cui viene ricordata, in palese contraddizione rispetto ai panorami mozzafiato che attraversa, risale ai tempi della sua edificazione e vuole essere un ricordo degli operai morti per il completamento del folle progetto. Ma la Transfăgărășan è solo una delle tante. Rispetto alle altre opere di ingegneria civile cadute nel dimenticatoio, ha la fortuna di avere dalla propria la bellezza, e quella si sa, piace a tutti, vende sempre bene.

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“PETITE FILLE” DI SÉBASTIEN LIFSHITZ

Presentato alla Berlinale 2020, l’ultimo film di Sébastien Lifshitz arriva finalmente in Italia al 36° Lovers Film Festival, proiettato come Evento Speciale fuori concorso.

Petite Fille è la storia di Sasha, una bambina di otto anni che non si riconosce nel proprio corpo maschile e che deve fare i conti con un mondo ostile alla sua diversità. Al centro del conflitto (e del documentario) il legame con la famiglia, che tra lei e la società fa da intermediaria e “scudo affettivo”, secondo le parole del regista. È in particolare la madre Karine a farsi carico di aiutarla, di farla comprendere e difenderla dalle maestre e dal preside, contrari a riconoscere Sasha in quanto femmina.

Lo stesso ruolo di mediatore viene adottato da Lifshitz, che sceglie di sacrificare una prospettiva imparziale ed esaustiva e lasciare l’opposizione fuori-campo, dando spazio e voce a chi in genere sta ai margini. In questa lotta lunga un anno il contrasto non è mai esplicito ma trapela dalle parole di Karine e dal volto della bambina, dalle sue microespressioni timide e inequivocabili, messe in luce dai frequenti primi piani. La macchina da presa diviene così per lei “un terzo genitore”, che le si accosta senza forzarla e mettendosi alla sua altezza, in amorosa e paziente attesa.

Opposto ma complementare a Petite Fille è un altro film recente, Bad Luck Banging or Loony Porn: anch’esso è incentrato sulla violenza delle convenzioni di genere, che similmente si manifestano in ambito scolastico (qui il casus belli è la pubblicazione di un video porno che minaccia il posto di lavoro dell’insegnante Emi).

Ma là dove Lifshitz sceglie linearità e lirismo, accompagnando il percorso di Sasha con la musica sacra di Vivaldi e la Rêverie di Debussy, il film di Radu Jude gioca al contrario sull’urto e aggredisce lo spettatore tramite stile e contenuti, sfociando in una scontro tra protagonista e scuola nel primo volutamente assente.

La conclusione è in entrambi casi amara: Emi può ottenere giustizia solo con l’intrusione nel film del genere Superhero, così come Sasha può danzare in abiti femminili (non da Wonder Woman, ma con ali di farfalla) solo confinata del proprio giardino. Nella speranza che crescendo i confini (di casa, di genere) divengano superflui.

“BAD LUCK BANGING OR LOONY PORN”DI RADU JUDE, ORSO D’ORO ALLA 71^ BERLINALE

First reaction? Shock.

Che siate cinefili accaniti, professionisti del settore o spettatori curiosi (e benché viviate nel 21esimo secolo), resterete increduli di fronte a questo film a partire dal suo incipit. Per quanto il mondo contemporaneo ci abbia abituato a ogni tipo di contenuto video, a fare la differenza è sempre il veicolo con cui quell’immagine ci arriva. Paradossalmente nel cinema è stato ripristinato uno sguardo cauto e morigerato allo scopo di ottimizzare le vendite. Bad Luck Banging or Loony Porn si prende gioco apertamente della pulizia del cinema popolare (il suo sottotitolo è proprio questo) e mescola la brutalità dell’home movie e del documentario con una rappresentazione finzionale che lavora sull’esasperazione dei meccanismi del linguaggio filmico.

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“I DO NOT CARE IF WE GO DOWN IN HISTORY AS BARBARIANS” DI RADU JUDE

“Non mi importa se passeremo alla storia come dei barbari.” Queste le parole di Mihai Antonescu, che in seguito alla conquista rumena di Odessa nel 1941, indiceva una pulizia etnica sull’onda dell’entusiasmo popolare. Il film di Radu Jude è una luce proiettata sul passato torbido della Romania, un paese troppo “pieno di sé” (parole del regista) e ossessionato dall’idea di lasciarsi alle spalle la dittatura comunista di Ceausescu. Continua la lettura di “I DO NOT CARE IF WE GO DOWN IN HISTORY AS BARBARIANS” DI RADU JUDE