Tutti gli articoli di Romeo Gjokaj

“MUMMOLA” DI TIA KOUVO

Il termine “mummola” in finlandese si riferisce alla casa della nonna, ma non si limita a indicare il mero luogo fisico. “Mummola” è la meta delle vacanze natalizie per tutta la famiglia, è un insieme di odori e sapori, un luogo sicuro e accogliente il cui ricordo provoca sempre una gradevole nostalgia, anche quando la famiglia non è proprio perfetta e unita. I ricordi della regista Tia Kouvo – che sceglie la sua città natale come location – prendono vita nel suo film d’esordio, sviluppato con il supporto del TorinoFilmLab e presentato alla 41° edizione del Torino Film Festival.  

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“RETAKE” DI KÔTA NAKANO

Nessun uomo entra due volte nello stesso fiume, perché non è lo stesso fiume e lui non è lo stesso uomo. Una simile idea, riconducibile alla filosofia eraclitea del panta rei, “tutto scorre”, ben rappresenta lo spirito meta-cinematografico di Retake, debutto assoluto per il regista giapponese Kôta Nakano e presentato alla sezione Nuovimondi della 41° edizione del Torino Film Festival.

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“LE RAVISSEMENT” DI IRIS KALTENBACK

Le vite di Lydia (Hafsia Herzi) e Salomé (Nina Meurisse) sono legate tra loro in modo speculare: quando una è felice l’altra soffre e viceversa. Così, lo stesso giorno in cui Salomè festeggia il proprio compleanno e l’appena scoperta gravidanza, Lydia piange la fine della relazione con il suo fidanzato, abbandonandosi a una solitaria e alienata Parigi autunnale che sembra la New York di Taxi Driver (1976). Quando Salomè partorisce, però, Lydia rincontra per caso Milos (Alexis Manenti) – insonne conducente di autobus che fa il verso al Travis Bickle di De Niro e con cui Lydia ha precedentemente avuto un’avventura – e si rende conto che la neonata rappresenta per lei il disperato tentativo per potersi finalmente sentire amata.

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“LA PIEDAD” DI EDUARDO CASANOVA

Quando a Mateo (Manel Llunell) viene diagnosticato un cancro al cervello, la madre Libertad (Ángela Molina) ha l’occasione che cercava: Mateo è ora totalmente indifeso, bisognoso di cure e attenzioni che solo lei è in grado di fornirgli. È una storia di amore edipico quella che Eduardo Casanova ci propone nel suo secondo lungometraggio La piedad, presentato in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

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Mateo non esce mai di casa senza la madre, dormono insieme nello stesso letto e quando uno dei due si ammala anche l’altro avverte i sintomi. Le personalità dei due sono talmente amalgamate da arrivare a scambiarsi e fondersi, ridendo, piangendo e soffrendo insieme. Mateo è nato proprio per soddisfare il bisogno della madre di essere indispensabile per qualcuno. La prospettiva che un giorno Mateo cresca e diventi indipendente, si faccia il bagno da solo e esca di casa per conto suo, spaventa la madre che cerca di tenerlo in una bolla in cui resti per sempre il suo bambino, da allattare a accudire, anche ora che è ormai cresciuto. Il rapporto tra madre e figlio dialoga con la vicenda parallela ambientata in Corea del Nord, nella quale dittatore e suddito non possono fare l’uno a meno dell’altro. Se all’inizio per Mateo è il padre assente a ricoprire il ruolo di tiranno e ad apparirgli in sogno nelle veci di Kim Jong-un intento ad uccidere un unicorno, presto si renderà conto che è invece la madre la causa del suo malessere.

Così come nella sua opera prima, Pelle (2017), Casanova non ha paura di mostrare immagini attraverso cui il cinema ritorna pura arte visiva, creando un legame voyeuristico con lo spettatore che si chiede se continuare a guardare o distogliere lo sguardo. Il colore rosa domina la scena mettendo a nudo e sviscerando i segreti inconfessabili dei personaggi, che perdono la propria umanità per diventare semplici pezzi di carne lacerati e malati. Ma più delle anomalie corporee, sono quelle psichiche ad interessare il regista. Casanova infatti indaga il risultato della combinazione di due disturbi psichiatrici quali la sindrome di Münchausen per procura, che porta la madre a tenere il figlio in stato di malattia somministrandogli farmaci di nascosto, e la sindrome di Stoccolma, che induce il figlio a tornare dalla madre-aguzzina. Il complesso edipico del figlio, che odia il padre senza averlo mai conosciuto e al quale si sostituisce, contribuisce poi alla nocività della coppia. Così, nonostante la madre sia la causa di tutti i suoi mali, Mateo non può fare a meno di lei, perché non concepisce nulla di diverso da quell’amore morboso che lo ha accompagnato dalla nascita.

Romeo Gjokaj

“FAIRYTALE” DI ALEKSANDR SOKUROV

La sostanziale differenza tra noi e la Storia è che questa non parla, siamo noi a costringerla a farlo. Cosa accadrebbe però se essa ci guardasse in faccia, ci prendesse per mano e iniziasse a parlarci del più e del meno, dei suoi rimpianti e dei suoi sogni irrealizzabili? È ciò che si propone di fare Aleksandr Sokurov con il suo Fairytale: far parlare spontaneamente la Storia, a bassa voce e con un leggero tocco di umorismo.

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Adolf Hitler, Iosif Stalin, Benito Mussolini e Winston Churchill si ritrovano riuniti nell’aldilà a chiacchierare mentre vagano per una nebbiosa selva oscura in attesa che il guardiano della porta decida se farli entrare in Paradiso. Il contenuto di queste conversazioni? Sbeffeggiarsi reciprocamente cercando ciascuno di far valere i propri ideali politici e sociali, comprendendosi nonostante le lingue diverse. Discorsi che evidenziano la loro dimensione privata cancellando l’aura solitamente attribuita loro dalla funzione pubblica e dalla Storia stessa. La parola viene dunque usata come strumento per conciliare i diversi punti di vista e per cercare di rompere la barriera con il passato e l’immagine cristalizzata che di loro abbiamo. Costruito attraverso filmati d’archivio, senza l’intervento di deep-fake o altri strumenti di intelligenza artificiale, il film chiama in causa il rapporto con il reale, la verosimiglianza, la memoria e la smitizzazione di questi personaggi, obiettivo che non avrebbe potuto certo perseguire ricorrendo ad attori che sostituissero questi volti, corpi e gesti che hanno cambiato la storia. Le voci prestate ai protagonisti sono poi perfettamente rese da un ottimo lip-sync che infonde vita alle sbiadite immagini immerse nella nebbiosa reminiscenza del passato.

Sokurov tenta di dare un senso alle difficoltà che il genere umano sta attraversando oggi facendo un passo indietro e soffermandosi sulle figure che maggiormente hanno plasmato quella realtà che conosciamo, individuati inevitabilmente nei protagonisti della Seconda Guerra Mondiale, evento che più ha eradicato le convinzioni positiviste sul progresso umano. Provare ad empatizzare con figure come Hitler e Stalin è l’arduo compito proposto allo spettatore, che attraverso tale operazione scopre che ogni avvenimento storico, anche il più terribile e malvagio, nasconde al suo interno solo uomini.

Romeo Gjokaj

“LA LUNGA CORSA” DI ANDREA MAGNANI

L’ostrica che rimane attaccata allo scoglio su cui il caso l’ha fatta nascere vivrà serenamente. L’ostrica che invece si avventurerà verso l’ignoto in cerca di fortuna non potrà che finire inghiottita dall’oceano. È così definito “l’ideale dell’ostrica” che accompagna le vicende dei protagonisti de I Malavoglia di Giovanni Verga e del film La lunga corsa, seconda opera del regista Andrea Magnani e unico lungometraggio italiano in concorso alla quarantesima edizione del Torino Film Festival.

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Giacinto (Adriano Tardiolo) nasce e cresce in carcere, unico ambiente che riconosce come casa nel corso del suo processo di formazione. Abbandonato dai genitori, viene accudito dalla guardia penitenziaria Jack (Giovanni Calcagno), che diventa il suo punto di riferimento. Jack vorrebbe però che Giacinto uscisse e si facesse una vita lontano dalle sbarre e dagli stretti corridoi per i quali il ragazzo si diverte a correre nonostante sia vietato. Lo porta così in una casa-famiglia che risulta però per il bambino una prigione più del carcere stesso. Appena ne ha l’occasione fugge e aggredisce un uomo per essere arrestato e poter tornare “a casa”, ma scopre che i bambini non possono andare in prigione. Ci riprova così il giorno del suo diciottesimo compleanno. Jack capisce che Giacinto non cambierà mai idea e lo fa assumere come guardia nel penitenziario, che diventa così per lui luogo di lavoro, alloggio e svago.

Se Easy – Un viaggio facile facile (2017), opera prima di Magnani, era un classico road movie, qui viene invece presentato un viaggio statico: Giacinto corre per ore ma non si muove mai, rimane all’interno della sua Matrix in miniatura, preferendo la pillola blu a quella rossa (colori tra l’altro ricorrenti nel film). Vuole restare rinchiuso nella sua caverna perché non vede nulla di interessante nel frenetico immobilismo che pervade l’esterno, dove le persone non sembrano far altro che correre senza meta tra autobus che girano in tondo e cantieri fermi da anni.

Jack cerca di far evadere Giacinto da quella che lui vede come una gabbia mentale senza però rendersi conto che è lui stesso il primo dei prigionieri, incatenato a una vita che non lo soddisfa e dalla quale tenta di scappare bevendo la sera. Giacinto non corre per fuggire o per vincere una gara; lui corre per correre, a differenza di quelli come Jack che vorrebbero fuggire ma rimangono immobili nella propria perpetua infelicità.

Romeo Gjokaj