Eggers si lascia alle spalle l’intellettualismo claustrofilo-cameratista di The Lighthouse (2019) per lanciarsi in una virilissima epopea vichinga fatta di rutti, flatulenze e massacri. Una storia di vendetta hardcore, lineare fino alla ridondanza, modellata un po’ sull’Amleth di Saxo Grammaticus e un po’ sulla legge del taglione. L’eroe è qui spogliato delle sofisticazioni shakespeariane e ricondotto a una corporeità originaria, de-pensante. Riflettere, nell’universo fatalista sceneggiato dalle Norne, è da assoluti imbecilli: basta adempiere al proprio destino, ammazzando chi si deve ammazzare, copulando con chi si deve copulare. Eventualmente, ammazzare qualcuno in più. Altrimenti, a che servono le comparse?
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“THE LIGHTHOUSE” DI ROBERT EGGERS
Non ricordo chi disse che bastano i primi tre shot per capire se un film sarà bello o meno. Tre shot. S’intende che la regola non funziona sempre – se no che regola sarebbe?- ma in tempi come questi, dove la produzione cinematografica si è così così saldamente consolidata nei suoi ritmi da essere più praticata della scrittura stessa, ecco, una buona regia equivale a una scrittura pulita, addomesticata quanto basta per non essere sbagliata. Tutti sanno scrivere; e tutti i buoni registi sanno girare tre buoni shot iniziali. Puliti, impeccabili, disponibili allo sguardo di lettori/spettatori ammaestrati. Per questo la regola non funziona sempre: capitano film sapientemente girati dall’industria, editrice di questo palinsesto consolidato dell’arte dell’intrattenimento video, che nonostante i tre, quattro, cento buoni shot, rimangono film patetici, inutili, o utili solo a distrarre. Avevo quindi rinunciato alla regola: troppo poco affidabile perché non mi aiutava a capire se un film meritasse di essere visto o meno. Poi ho rivisto i primi tre shot di The Lighthouse una ventina di volte e la regola ha riacquistato valore.
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