“SANS RIVAGES” DI MATHIEU LIS

A volte si possono incontrare per strada persone che non si conoscono e notare in loro uno sguardo perso e smarrito. Dal volto di un individuo possiamo immaginare la sua storia, da dove viene, cosa ha fatto, perché è solo.

Nel dibattito che ha seguito la proiezione di Sans Rivages, il regista Mathieu Lis ha parlato proprio delle suggestioni che possono venire dagli sconosciuti, suggestioni che lo riconducono al personaggio del suo film. Il protagonista infatti potrebbe essere l’emblema di uno di quegli uomini di cui non conosciamo la storia e Lis stesso ha affermato di non avere idea di quale possa essere stata la vita di Andrea, ma di aver seguito l’istinto nel raccontare gli eventi del film.

Sans Rivages  racconta di un uomo anziano la cui esistenza è in declino a causa dell’alcolismo. La narrazione si articola su due livelli: da un lato l’immaginazione, ovvero ciò che Andrea pensa di vivere durante i suoi deliri causati dall’alcool, e dall’altro la realtà, che lo mette di fronte alla sua solitudine e alle sue paure.

Durante le sequenze legate al piano immaginifico il protagonista è un marinaio che vive su una barca lussuosa e trascorre il suo tempo con due ragazze di bell’aspetto che insieme a lui abusano di droghe e alcolici. Nelle sequenze della realtà le due giovani donne sono semplicemente un’infermiera ed un medico della clinica in cui è stato ricoverato dopo essere stato trovato in condizioni fisiche disastrose.

In entrambi i livelli il personaggio (a differenza delle ragazze che sono serie e compite nella realtà mentre nelle sue visioni si divertono e vivono spensieratamente le loro esistenze all’insegna della dissolutezza) si mostra allo spettatore con uno sguardo in cui sembra condensarsi la sua personalità . Andrea non sembra provare alcun piacere nelle azioni che compie e anche quando sorride i suoi occhi tradiscono una tristezza inconsolabile.

Carlo Brandt e Baya Madhaffar in una scena di Sans Rivages (Mathieu Lis, 2018)

I due piani narrativi sono ben delineati anche per quanto concerne lo stile: se nelle visioni la fotografia è caratterizzata da eccessi di colore (soprattutto rosso e blu) e da una musica quasi assordante, il piano realistico presenta immagini scarne e nitide – quasi a ricordare ad Andrea di poggiare i piedi per terra e di porsi di fronte alla concretezza della vita, che è completamente diversa da quella che immagina.

Come richiamare un mondo inventato senza essere troppo espliciti? Sicuramente attraverso la mitologia, i cui riferimenti, come ha confermato il regista, sono lampanti: le due donne che accompagnano Andrea, sono, nella sua immaginazione, chiaramente delle sirene. Belle e giovani, lo ammaliano e lo inducono ad abbandonarsi alla lussuria. Entrambe, inoltre, guardano più di una volta in camera, come ad avvertire lo spettatore dell’inganno: siamo chiamati a comprendere sin dall’inizio che quasi nulla di ciò che stiamo vedendo rispecchia la verità.

Andrea vive la sua vita al di fuori di se stesso, ed è come se lasciasse il suo corpo per addentrarsi nei meandri della sua mente deviata dalle sostanze di cui fa uso. La passività nei suoi occhi è segno di questa esistenza trascorsa in un mondo che può soltanto desiderare. La vita reale è infatti amara, triste, ma mostra anche il lato più umano del personaggio, che vorrebbe solo raccontarsi e distaccarsi da quella solitudine che lo ha probabilmente accompagnato per anni. I due piani si intrecciano attraverso un gioco di risonanze continue. Come una linea di mezzeria che divide una strada, lo spettatore percorre i due sensi per l’intera durata del film, provando grande tenerezza e compassione verso un uomo come tanti, con occhi incredibilmente eloquenti.

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