“THE LAST HILLBILLY” DI DIANE SARA BOUZGARROU E THOMAS JENKOE

Nel cuore degli Appalachi, a circa trecento metro di altezza sorge Talcum, un piccolo insediamento indipendente dall’amministrazione locale. Brian Ritchie e la sua famiglia vivono da decenni in questa zona, un tempo terra di miniere. Hanno visto svilupparsi un mix esplosivo di declino economico, disastro ecologico e violenza sociale. Li chiamano hillbillies, cioè bifolchi, zotici montanari, un insulto diventato per molti un segno identitario. Tra questi lo stesso Brian, che vive intrappolato tra un passato mitico e un futuro senza prospettive. È uno degli ultimi testimoni di un mondo in estinzione che, proprio per questo, ispira la sua poesia.

Il film, grazie alla grana della pellicola 35mm, offre un calore intimo e domestico e si divide in tre capitoli: Under the Family Tree, The Waste Land e Land of Tomorrow. Una delle motivazioni che muove il protagonista è sfidare gli stereotipi attorno all’epiteto “bifolco” – l’idea che le persone come lui siano ignoranti, povere, violente, razziste e responsabili dell’ascesa di Donald Trump. Un’immagine che risale in particolare ai tempi del proibizionismo, quando su quei monti venivano prodotti illegalmente i liquori tripla “X” che rifornivano gli speakeasy di tutto il paese.

Il film è composto da tutti quei momenti che compongono la vita quotidiana essenziale ma dura di Brian e della sua famiglia, lacerati dalla tensione tra le tradizioni di un passato leggendario, e l’inevitabile processo di modernizzazione che i nativi digitali stanno portando nella loro terra molto più lentamente rispetto ad altre parti del mondo. Brian guarda con nostalgia al suo passato, che gli paiono lontani quasi quanto i tempi mitici dei pionieri; crede realmente di aver fatto parte di “un altro mondo” e di essere l’ultimo baluardo di un certo stile di vita e di una certa mentalità. Una profondità, un afflato poetico verso qualcosa che sta scomparendo che viene ben reso dalla scelta della voce fuori campo lucida e riflessiva. La regia di Diane Sara Bouzgarrou e Thomas Jenkoe rinuncia a una struttura narrativa classica e predilige una direzione disorientante, come disorientante è trovarsi in un microcosmo tutto da scoprire: non è semplicemente la vita di montagna della famiglia, ripresa da Jenkoe, ma una cultura che rivendica una forte identità, molto lontana dai classici ritmi occidentali: i paesaggi aspri e gli animali, che siano compagni o prede, come anche la desolazione, la solitudine e l’isolamento di questa terra e di questa gente vengono contemplati da monolitiche inquadrature che sfidano lo sguardo dello spettatore e che diventano particolarmente stranianti grazie a l’inquietante e colonna sonora composta da Jay Gambit. C’è un tono grottesco in questo lavoro, a cominciare dallo stesso Brian che, affermando di essere l’ultimo della sua ‘specie’, guardando direttamente in macchina, dice: “Conosci già i bifolchi. Hai tutte le storie che racconti, i libri che hai letto. Tutti sanno che siamo ignoranti, ineducati, poveri, violenti, razzisti, incestuosi. Ed è tutto vero”.

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